I Vicere. Federico De Roberto

I Vicere - Federico De Roberto


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fece dire due volte, e andò a Palermo. Lì, il partito d’azione, vinto egualmente, era tuttavia meno depresso: le speranze non erano morte o cominciavano a risorgere. Passata la paura che le ultime vicende gli avevano messa in corpo, rinatagli in cuore l’ambizione inappagata e mortificata, il duca prestò di nuovo orecchio alle sollecitazioni dei liberali, anche per dimostrare ai suoi cari concittadini che non meritava il loro disprezzo. E quantunque non s’allontanasse dalla consueta prudenza, e andasse ai conciliaboli rivoluzionari come ai ricevimenti del Luogotenente generale del Re, e tornasse insomma, con più prudenza, al giuoco di prima, arrivò tuttavia a Catania la voce che egli era nei comitati d’azione e in corrispondenza con gli emigrati, e che dava quattrini per la buona causa e che soccorreva i patriotti perseguitati. Oltre la voce, arrivarono anche i quattrini che egli mandava ai comitati locali, comprendendo finalmente che quella era la buona via; che uno come lui, senza fede e senza coraggio, non poteva far valere altri titoli se non i denari sonanti. E frattanto gli animi placati vedevano meglio, riconoscevano i maggiori colpevoli, rivolgevano contro costoro l’odio col quale avevano prima perseguitato il duca. Infine venne il matrimonio di Raimondo con la Palmi ad assicurargli nuove grazie. Egli aveva conosciuto il barone a Palermo, per mezzo degli agitatori che questi veniva a trovare da Milazzo, in barba alle autorità e col pretesto degli affari. Quando il duca seppe del matrimonio divisato dalla principessa, s’affrettò quindi non solamente ad approvarlo, ma anche ad offrirsi come mediatore, facendo valere l’amicizia che lo legava al barone. Egli sentiva che quell’alleanza del proprio nipote con la figlia dell’antico liberale non poteva se non favorirlo, aiutarlo a riacquistar credito presso la parte che aveva tradita. Quanto alla principessa, borbonica come tutti gli Uzeda, il liberalismo dei Palmi piuttosto che un ostacolo fu una ragione di più che le fece combinare quel matrimonio. Prima di tutto ella era borbonica d’istinto, ma non s’occupava di politica avendo altro da fare; poi, come le era piaciuto che la sposa non potesse vantare una eccelsa nobiltà, così vedeva bene che la famiglia di lei fosse perseguitata dal governo, affinché Raimondo potesse meglio imporsi, in tutti i modi, alla famiglia ed alla moglie.

      Per le nozze del nipote, il duca tornò in patria. Erano passati appena due anni dai fatti che gli avevano valso l’odio dei suoi concittadini e già egli poté vedere gli effetti della lontananza e della sua nuova politica e dell’amicizia col barone Palmi e dell’adesione al matrimonio di Raimondo. Mentre don Blasco e donna Ferdinanda, in guerra a morte con la principessa, se la prendevano anche con lui per l’appoggio prestato alla cognata e per la politica che gli dettava quel contegno, e al colmo della rabbia lo vituperavano e per poco non lo denunziavano alle autorità pel suo liberalismo, e poi ne ridevano e quasi gli gettavano in faccia il tradimento del 1849, la firma del Libro nero, l’amicizia di Satriano; mentre suo fratello e sua sorella facevano ciò, molti di coloro che gli avevano tolto il saluto lo avvicinarono e gli strinsero la mano; altre paci furono facilmente suggellate per mezzo di Giulente; nessuno parve più rammentare le storie passate. Nondimeno, il duca ripartì, se ne tornò a Palermo, un poco perché aveva preso gusto a starci, ma anche per confermare quelle buone disposizioni.

      Tornato in patria, adesso, per la morte della cognata, egli era accolto quasi in trionfo, la gente traeva a lui in processione. Non solo nessuno parlava più dei fatti del 1849, vecchi di sei anni; non solo egli era considerato come una delle speranze del partito; ma il lungo soggiorno alla capitale, la frequentazione dei maggiori uomini palermitani gli conferivano improvvisamente fama di grande dottrina. Egli citava le opinioni di Tizio e di Filano, celebri patriotti «amici miei» – come don Eugenio aveva per amici i più gran signori napolitani —; infarciva i suoi discorsi di citazioni erudite di seconda e di terza mano; riesponeva a modo suo, quasi pensate da lui, le teorie economiche e politiche di cui aveva avuto qualche sentore nelle conversazioni di Palermo: e la gente gli stava dinanzi a bocca aperta. Il patriotta, è vero, riceveva visite dall’Intendente e le restituiva, e non aveva scrupolo di mostrarsi in compagnia dei più ferventi borbonici; ma ciò non gli era posto più a debito: bisognava fingere con l’autorità per non destarne i sospetti, per comprenderne il giuoco. Egli dava quattrini, non lasciava andare a mani vuote chi gli chiedeva soccorsi. Don Blasco e donna Ferdinanda lo vituperavano pertanto, ciascuno da canto suo, con più grande violenza di prima; egli li lasciava cantare, seguitava a giocare sulla carta della libertà come il monaco sopra i numeri del lotto e la zitellona sul credito della gente.

      Come in politica si teneva bene con tutti, così in casa non parteggiava più per uno che per l’altro. Vedeva l’armeggio di don Blasco per sollevare i nipoti defraudati, sapeva le ragioni che militavano per essi; ma vedeva ancora la ciera accigliata del principe, udiva le sue amare lagnanze pel «tradimento» che gli aveva fatto la madre: perciò stava al bivio, dava ragione un po’ a tutti: al principe che gli offriva ospitalità e lo trattava con deferenza, a Lucrezia che amando e sposando il nipote del cospiratore Giulente, lo avrebbe aiutato ad entrar meglio nelle grazie dei liberali.

      4

      «Oggi non si mangia?»

      Il principino moriva di fame. Da un pezzo l’ora del desinare non arrivava mai: un po’ mancava il duca, un po’ Raimondo, un po’ lo stesso principe; quel giorno eran fuori tutti e tre, più Lucrezia e Matilde. E il ragazzo era la disperazione di tutta la casa: correva su e giù dalla cucina alla scuderia, dalle stalle al giardino, inquietava la servitù vecchia e nuova intenta al lavoro. Come don Blasco aveva annunziato al Babbeo, tutti i servi protetti dalla principessa erano stati mandati via da Giacomo; invece i diseredati, quelli che per aver favorito il figliuolo avevano meritato l’avversione della madre, erano stati da costui riconfermati nel loro posto. Due sole eccezioni aveva fatto il principe: una a favore di Baldassarre e l’altra del signor Marco. Baldassarre, figliuolo d’una antica cameriera, allevato al palazzo e assunto giovanissimo all’ufficio di maestro di casa, sapeva fin da bambino il debole della famiglia, le rivalità, le avversioni e le manìe; aveva perciò badato esclusivamente al proprio servizio lodando tutti i padroni checché facessero o dicessero, tenendo in riga i suoi dipendenti che osavano mormorare dell’uno o dell’altro. Pertanto madre e figlio l’avevano ben visto entrambi, e il legato della principessa non gli procurava il congedo del principe. Quanto al signor Marco, lancia spezzata della morta, molti si meravigliavano che il figlio, da due mesi capo della casa, non se ne fosse ancora sbarazzato. Veramente, fin da quando la principessa era caduta inferma, l’amministratore aveva mutato tattica, prendendo con le buone il padrone nella previsione di doverlo presto servire; morta la madre, se non gli aveva proprio lasciato rubare il numerario, come diceva don Blasco, gli si umiliava certamente in tutti modi. Del resto, un procuratore come lui, che conosceva la casa da quindici anni, che sapeva le condizioni delle proprietà e lo stato delle liti, non si poteva surrogare da un momento all’altro.

      «Non si mangia più?… Che fate?… Voglio vedere!… Perché non allestite?… A me!»

      In cucina, tolto di mano a Luciano, il credenziere, un coltello che questi stava nettando, il principino continuò egli stesso l’operazione.

      «Vostra Eccellenza, che fa mai!…» Il nuovo cuoco, monsù Martino, non sapeva come prenderlo. «Se ne vada di sopra, ci lasci lavorare.»

      «Lèvati di torno! Voglio far io!»

      Bisognava lasciarlo fare. Se lo contrariavano, diventava una furia: digrignava i denti, gridava come un ossesso, rovesciava quanto gli capitava fra le mani. In verità il principe educava severamente il figliuolo, non gliene passava nessuna liscia; ma, da un’altra parte, non scherzava neppure con le persone di servizio se queste, messe con le spalle al muro e perduta la pazienza, rispondevano male al padroncino. E giusto adesso, dopo la morte della principessa, il posto di cuoco, in casa Francalanza, era divenuto più importante di prima. Giacomo dava punti alla madre quanto a diffidenza e a vigilanza: teneva tutte le provviste sotto chiave, voleva conto delle cose più miserabili, degli avanzi, delle croste di pane; ma insomma la spesa giornaliera, non contando l’aumento per gli ospiti, era considerevole e il trattamento più lauto: mangiavano adesso quattro piatti; mentre ai tempi della madre se ne facevano tre per lei e per don Raimondo: gli altri dovevano contentarsi, nei giorni ordinari, d’una minestra e d’un po’ di carne o di pesce. Anche quando Giacomo era diventato ricco della dote della moglie, la principessa, facendosi dare dal figlio la sua parte di spesa, aveva continuato a ordinare a modo suo, e il principe, fedele al proposito di mostrarlesi obbediente, era rimasto zitto. Così


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