I Vicere. Federico De Roberto
cognata Matilde, egli smetteva a tavola la ciera accigliata, per corteggiar lo zio. Non era la prima volta che il desinare cominciava senza Raimondo, e al malumore di Lucrezia faceva riscontro, quel giorno, un pensiero molesto sulla fronte di Matilde.
Non le facevano festa, in quella casa. Il principe, donna Ferdinanda, don Blasco, un po’ anche la cugina Graziella, dovevano trovare in lei colpe imperdonabili, se la punzecchiavano assiduamente, se la trattavano senza riguardi; ma ella perdonava le mancanze di riguardo e gli sgarbi fatti a lei; non soffriva quelli che toccavano a suo marito. Forse era questa la sua grande colpa: l’amore che portava a Raimondo!… Lo amava fin da quando lo aveva visto, da prima ancora; fin da quando, fidanzata per lettera a quel conte di Lumera del quale suo padre, superbo d’imparentarsi coi Viceré, le faceva lodi senza fine, ella aveva lavorato con la fantasia a rappresentarlo bello, nobile, generoso, cavalleresco come un eroe del Tasso o dell’Ariosto. E la realtà aveva superato le sue stesse immaginazioni; tanto era fine, lo sposo suo, e leggiadro, ed elegante, e splendido; ed ella che non aveva conosciuto da vicino altri uomini, che s’era nutrita unicamente di sogni, di poesia, di fantasia alta e pura, gli aveva dato tutta l’anima, per sempre; lo aveva amato ancora nei suoi cari e idolatrato nella figlia nàtale da lui. Ella non aveva altra idea della vita che quella espressa dalla vita sua propria, semplice e piana, tutta trascorsa in mezzo alla sorellina Carlotta, alla mamma loro, soave ed amara ricordanza, ed al padre, uomo di passioni estreme, amico o nemico fino alla morte degli altri uomini, ma cieco e folle d’amore per le sue figlie… Mentre ella adesso si voltava ogni tratto a guardar l’uscio della sala con l’ansiosa aspettativa dell’arrivo di Raimondo, la scena che aveva dinanzi le rammentava, con un effetto di vivo contrasto, un’altra indelebilmente fitta nella sua memoria. La sua memoria le rappresentava il desco familiare, nella grande stanza da pranzo della casa paterna, a Milazzo: la mamma, la sorella, ella stessa intenta ai racconti del padre, sorridenti con lui, con lui tristi o dolenti; il padre tutto loro, coi pensieri e con le opere; e un costante e quasi superstizioso rispetto per le antiche abitudini, e una pace patriarcale, un amore reciproco, una confidenza assoluta. Se ella si guardava ora intorno, che vedeva? La principessa timida e paurosa dinanzi al marito, il ragazzo tremante a un’occhiata del padre, ma superbo dell’umiliazione inflitta alla zia; Lucrezia e il fratello ancora freddi e sospettosi l’uno verso l’altra; il principe ostentante il buon umore col duca dopo una giornata d’accigliato silenzio… Ella neppure sospettava le passioni che dividevano quella famiglia, il giorno che vi era entrata come in un’altra famiglia sua propria: tanto più grande era stato il suo stupore, il suo dolore, nel vedere di che sordo astio la ripagavano. Giudicavano, certo, che fosse indegna di Raimondo perché a lui inferiore: e nessuno quanto lei stessa lo poneva tanto alto; ma non le aveva giovato sentirsi e farsi umile dinanzi a lui e ad essi: l’astio non s’era placato. Allora ella aveva cominciato a comprendere le particolari passioni che, oltre all’orgoglio, animavano ciascuno di quegli Uzeda duri e violenti… La madre di Raimondo, per idolatria del figlio era gelosa di lei: riuscita ad ammogliarlo, ad assicurargli la dote, aveva umiliato la nuora, facendole sentire fin dal primo giorno la sua mano di ferro perché, più d’ogni altro, ella stessa sommessa dinanzi al beniamino; ma la sommessione idolatra, il cieco affetto della sposa, togliendole ogni pretesto d’incrudelire su lei, mettendo nuova esca al fuoco della sorda gelosia materna, l’aveva resa implacabile. Il fratello maggiore, non perdonando a Raimondo i suoi privilegi, non potendo rassegnarsi alla concorrenza che la famiglia di lui faceva alla propria, rovesciava il suo rancore sulla cognata. Tutti gli altri erano stati senza pietà per l’intrusa, o in odio alla principessa che l’aveva voluta in quella casa o in odio a Raimondo che la madre proteggeva. Così ella s’era vista bersaglio di quei parenti ai quali era venuta con animo confidente e cuore affezionato; e lo scoprire che il loro astio era tanto acre contro di lei quanto contro Raimondo, invece di attenuare aveva inacerbito la sua pena; poiché perduta d’amore pel marito, ella soffriva e gioiva in lui e per lui… In quello stesso momento che il principe pareva non veder la cognata o, se volgevasi dalla sua parte, smessa a un tratto la ciera gioconda, le mostrava un viso contegnosamente chiuso, peggio che se fosse una estranea, ella non soffriva tanto di quell’ostentata freddezza, quanto della trascuranza da tutti dimostrata verso suo marito. Il desinare progrediva come se egli non dovesse venire più, nessuno chiedeva di lui. Lucrezia teneva ancora il capo chino sul desco, la principessa badava a suo figlio, il principe parlava dello stato delle campagne, dei prezzi delle derrate, dei pericoli del colera; il duca discuteva della guerra d’Oriente; e solamente un estraneo, don Mariano, diceva tratto tratto:
«E Raimondo?… Non si vede più!… Che gli è successo?»
Allora, come per virtù dell’eco, quella domanda si ripercoteva nel pensiero di lei: «Non si vede più!… Che gli è successo?…» Perché mai tardava tanto? Perché la lasciava sola tra quegli estranei indifferenti od ostili?
«I russi resistono ancora… un osso duro da rodere… Napoleone ne seppe qualcosa…»
Di nuovo assorta in pensieri più gravi e molesti, ella udiva brani di frasi, parole di cui non afferrava il senso. Da quanto tempo la lasciava sola, Raimondo! Da quanto, da quanto!… Ella rammentava assiduamente la prima pena che le aveva inflitta, tanto tempo addietro. Buono con lei nei primi tempi del matrimonio, durante il viaggio di nozze ed il soggiorno di Catania, appena giunto a Milazzo dove erano andati per affari, per vedere il padre e la sorella di lei, egli aveva dichiarato di non aver preso moglie per vivere in quella bicocca, per incappare nella tutela del suocero dopo essere uscito da quella della madre. Certo, ella non credeva che la vita nella sua cittadella natale potesse allettarlo molto; certo, lo avrebbe seguito dovunque gli sarebbe piaciuto condurla; nondimeno quel brusco giudizio intorno a cose e persone care al cuor suo le aveva procurato un senso d’angustia indimenticabile. Egli voleva lasciare per sempre la Sicilia, andarsene a vivere a Firenze; né la contraria volontà della madre gli era d’ostacolo; alla moglie, che per non discostarsi troppo dai suoi gliela rammentava esortandolo ad obbedirla, rispondeva bruscamente: «Lasciami fare a modo mio.» Ed ella, sì, aveva riconosciuto le sue ragioni. La Sicilia, la Toscana, qualunque parte del mondo dove sarebbero stati insieme felici, non doveva esser tutt’uno per lei? Il dispotico divieto della suocera poteva avere maggior peso per lei del desiderio del marito? E quel desiderio non era forse legittimo; il suo Raimondo non era chiamato a figurare in mezzo alla società più eletta di una grande città? Giovani e ricchi, non sarebbero stati dovunque segno dell’invidia di tutti?… Ed ella non aveva perseverato nei tentativi di resistenza anche per un’altra ragione, più grave. Raimondo, del quale perdonava, anzi voleva ignorare i modi un po’ bruschi, l’insofferenza della contraddizione, tutti i piccoli difetti di un figliuolo troppo vezzeggiato, si mostrava qual era anche col suocero. Il carattere di costui essendo pure molto forte, un dissenso poteva sorgere da un momento all’altro. Sulle prime, il barone aveva fatto una vera festa al genero, trattandolo quasi come la principessa, sedotto anche lui dalla grazia fine del giovane, inorgoglito dalla fortuna di essersi imparentato coi Francalanza; ma Raimondo aveva risposto a tante prevenzioni zelanti, a tante cure affettuose mostrandosi malcontento di tutto, in quella casa, ripeteva ogni quarto d’ora: «Come si fa a vivere qui?…» Il barone aveva da lui la procura per amministrare le proprietà date alla figlia, e in questa amministrazione intendeva seguire i criteri e i sistemi antichi, dei quali sapeva la bontà; Raimondo invece, per occupar gli ozi di Milazzo, quando non passava le intere giornate giocando al casino con gli scapati presto conosciuti, si faceva render conto dal suocero dei suoi provvedimenti, per biasimarli, per suggerir quelli che, a suo giudizio, bisognava adottare. In questa materia, egli dimostrava un’assoluta ignoranza degli affari, una stravaganza di concetti molto simile a quella del fratello Ferdinando: il barone ne rideva, egli se l’aveva a male. Le parti s’invertivano quando il barone gli chiedeva conto dell’impiego dei capitali dotali: allora egli biasimava certe operazioni bislacche del genero, e questi dichiarava al suocero che non ci capiva nulla. Spesso, in quei dibattiti, alle uscite vivaci di Raimondo il barone faceva un visibile sforzo per contenersi, per non dargli sulla voce; allora Matilde interveniva, mutava soggetto al discorso, componendo il lieve screzio coi sorrisi prodigati egualmente alle due persone che più amava al mondo. Il suo grande dolore fu perciò nell’accorgersi che, se voleva vederle in pace, le conveniva evitare che stessero a lungo insieme. Decisa così a secondare il desiderio del marito, ella lo aveva seguito a Firenze, ma quest’ultima risoluzione di Raimondo era stata causa della più viva opposizione del barone che