I Vicere. Federico De Roberto
levatosi dalla poltrona, messa una mano sulla spalla del nipote:
«Càlmati, andiamo!» esclamò. «Non esageriamo né da una parte né dall’altra. La roba è lì…»
«Nessuno la tocca!»
«Essi vogliono fare i conti, tu sei pronto a darli…»
«Ora, all’istante!…»
«E dunque l’accordo è immancabile. Farete questi conti, vedrete se la divisione di vostra madre è giusta o no; accomoderete tutto con le buone.»
«Ora, all’istante!» ripeteva il principe seguendo lo zio che s’avviava. «Perché non hanno parlato prima? Non sono già lo Spirito Santo per potere indovinare ciò che mulinano nelle teste bislacche!»
«C’è tempo! c’è tempo!…» ripeteva il duca, conciliante, senza far notare al nipote la contraddizione in cui cadeva, avendo prima asserito di saper dei complotti. «Non la pigliare così calda! Parlerò con Raimondo, poi con gli altri; la roba è lì; vedrete che non ci saranno quistioni… A proposito,» esclamò, giunto all’uscio e voltandosi indietro, «che cosa è l’affare della badìa?»
«Qual affare?…» rispose il principe, stupito.
«Il legato delle messe… Le mille onze che non vuoi dare ad Angiolina…»
«Le mille onze? Io non voglio darle?…» esclamò allora Giacomo. «Ma non vede Vostra Eccellenza come sono tutti d’una razza, falsi e bugiardi? Io non le voglio dare? mentre invece il legato di nostra madre è nullo, perché importa l’istituzione d’un beneficio, e le istituzioni di beneficio non reggono quando manca l’approvazione sovrana?…»
Nella Sala Gialla don Blasco rodevasi le unghie, sapendo quella bestia del fratello in confabulazione col nipote e non potendo udire i loro discorsi. Dalla contrarietà, stronfiava, spasseggiava in lungo e in largo, non udiva neppure quel che dicevano intorno a lui.
Era arrivata la cugina Graziella, la quale cicalava con la principessa, con Lucrezia e con donna Ferdinanda; meno con Matilde, per mostrar di partecipare ai sentimenti degli Uzeda verso l’intrusa. Aveva creduto di poter entrare anche lei in casa Francalanza, la cugina; di prendersi anzi il primo posto, come moglie del principe Giacomo, ma l’opposizione della zia Teresa aveva trionfato di lei e del giovane. Invece che «principessa», s’era chiamata semplicemente «signora Carvano», ma quantunque il cugino, presa la moglie che la madre gli destinava, si fosse posto il cuore in pace e paresse perfino aver dimenticato che fra loro due c’erano state un tempo parole tenere, ella aveva continuato a fare all’amore, se non con lui, con la sua casa. C’era venuta assiduamente, aveva stretto amicizia con la principessa Margherita e indotto il marito a fare anche lui la corte agli Uzeda, e tenuto a battesimo Teresina e dimostrato in ogni modo e in tutte le occasioni che le antiche fallite speranze non potevano intepidire in lei l’affezione verso tutti i cugini. Durante la malattia e dopo la morte di donna Teresa, specialmente, donna Graziella era quasi diventata una persona della famiglia; tutti i giorni e tutte le sere a prender notizie, a prodigar conforti, a suggerir consigli, a rendersi utile con le parole e con le opere. La principessa non solo non aveva ragione di esserne gelosa, poiché Giacomo dimostrava tanta indifferenza verso la cugina che certe volte neppure le rivolgeva la parola e, smesso il tu, le dava del freddo voi; ma era perfino incapace di provare gelosia o qualunque altro sentimento per lei come per ogni persona, tanto la naturale indolenza e il bisogno d’isolamento e la soggezione in cui la teneva il marito la rendevano indifferente a tutto ed a tutti fuorché ai propri figli.
Quel pomeriggio appunto, dopo tavola, la balia era venuta a dirle che la bambina tossicchiava un poco; cosa da nulla, certo; ma ella se n’era inquietata, e la cugina, trovata quella dispiacevole novità, faceva sfoggio della sua scienza medica, consigliando la somministrazione di polveri e di decotti alla figlioccia, assicurando però che il male non era grave, sgridando nondimeno la balia che aveva dovuto lasciare il balcone aperto.
Raimondo, che d’ordinario scappava via appena finito di prendere un boccone, pareva volesse restare in casa, per suo piacere; e Matilde, tutta riconfortata, dimenticata a un tratto la tristezza di un’ora innanzi, lo seguiva con lo sguardo ridente. Era così fatta che una parola, un nulla la turbavano e la rassicuravano: e chiedeva tanto poco per essere felice! Se egli fosse stato sempre così, se avesse dedicato una parte del suo tempo alla famiglia, se avesse prodigato alla sua bambina le carezze che quella sera faceva al principino!… Questi, nel gruppo degli uomini, ripeteva le declinazioni al cavaliere don Eugenio, il quale s’era costituito suo maestro, tra gli applausi dei lavapiatti ad ogni risposta azzeccata; ma cominciando a confondersi, ad imbrogliarsi:
«E non lo tormentare più, povero bambino!» esclamò donna Ferdinanda. «Qui, con la zia! Ti rompono la testa con tutte queste storie, eh? Rispondi loro: “Debbo forse fare il mastro di penna?”»
Don Eugenio, udendo disprezzare le belle lettere, rispose:
«Bisogna studiare, invece!… L’uomo tanto più vale quanto più sa! E poi bisogna che tu faccia onore al nome che porti; tra i tuoi antenati c’è don Ferrante Uzeda, gloria siciliana!»
«Don Ferrante?» esclamò la zitellona. «Che fece don Ferrante?»
«Come, che fece? Tradusse Ovidio dal latino, commentò Plutarco, illustrò le antichità patrie: templi, monete, medaglie…»
«Aaah!… Aaah!…» Donna Ferdinanda era scoppiata in una risata che non finiva più, che si risolveva in spruzzi di saliva tutto in giro. Il cavaliere rimase a bocca aperta, don Cono non sapeva che viso fare.
«Aaah!… Aaah!…» continuava a ridere donna Ferdinanda. «Don Ferrante! Aaah!… Don Ferrante sai che fece?…» spiegò finalmente, rivolta al nipotino. «Teneva quattro mastri di penna, pagati a ragione di due tarì il giorno, i quali lavoravano per lui; quando essi avevano scritto i libri, don Ferrante ci faceva stampare su il proprio nome!… Aaah! Che sapesse leggere, ci ho i miei bravi dubbi!…»
Allora s’impegnò una gran discussione. Don Cono e il cavaliere sostenevano, a vicenda, che se l’antenato non aveva scritto materialmente le sue opere, ne aveva però dettato il contenuto; tanto è vero che le accademie di Palermo, Napoli e Roma lo avevano annoverato tra i loro soci; ma la zitellona interrompeva: «Fatemi il piacere!…» intanto che la cugina, scrollando il capo, affermava che, veramente, gli studi non erano stati il forte dell’antica nobiltà.
«Il forte?» esclamava la zitellona. «Ma fino ai miei tempi era vergogna imparare a leggere e scrivere! Studiava chi doveva farsi prete! Nostra madre non sapeva fare la propria firma…»
«Era forse una bella cosa?» obiettò don Eugenio.
«Non mi parlare anche tu del progresso!» saltò su donna Ferdinanda. «Il progresso importa che un ragazzo debba rompersi la testa sui libri come un mastro notaio! Ai miei tempi, i giovanotti imparavano la scherma, andavano a cavallo e a caccia, come avevano fatto i loro padri e i loro nonni!…»
E mentre don Mariano approvava, con un cenno del capo, la zitellona si mise a tesser l’elogio di suo nonno, il principe Consalvo vi, il più compito cavaliere dei suoi tempi. Aveva avuto una così grande passione pei cavalli, che, d’inverno, ogni anno, si faceva costruire un passaggio coperto in mezzo alla pubblica via, affinché i suoi nobili animali restassero sempre all’asciutto.
«E le altre persone potevano passarci?» domandò il principino.
«Potevano passarci quando non era l’ora della passeggiata del principe,» rispose donna Ferdinanda. «Se usciva lui, tutti si tiravano da parte!… Una volta che il capitano di giustizia con la carrozza propria ardì passar innanzi alla sua, sai che fece mio nonno? Lo aspettò al ritorno, ordinò al cocchiere di buttargli addosso i cavalli, gli fracassò il legno e gli pestò le costole!… Si facevano rispettare i signori, a quei tempi… non come ora, che dànno ragione agli scalzacani!…»
La botta era tirata al duca che rientrava in quel momento nella Sala Gialla insieme col principe. Don Blasco, interrotta finalmente la sua corsa, piantò gli occhi addosso al fratello e al nipote.
«Che diavolo hai fatto?» disse al principe.
«Nulla… avevo certe notizie da domandare allo zio…»
Sopravvennero