Il tesoro della montagna azzurra. Emilio Salgari
di quanto accadeva, mandò a svegliare l’equipaggio per spingere la zattera là dove si svolgeva di certo qualche dramma marino. Voleva arrivare sul posto prima che i pescicani, ammesso che si trattasse di un assalto di quegli squali, avessero divorata interamente la gigantesca preda. I quattordici marinai, armatisi di manovelle e remi, si misero ad arrancare furiosamente, spingendo avanti, molto lentamente però, il pesantissimo galleggiante. Le urla del dugongo si ripetevano, ma sempre più deboli. Certo il disgraziato mammifero si esauriva. Si vedeva distintamente il luogo dove si trovava, poiché là si sollevavano di tanto in tanto delle ondate spumeggianti che si allontanavano in semicerchio. Don Pedro e Mina, avvertiti che l’equipaggio stava per assicurarsi una buona provvista di viveri, erano usciti dalla tenda per assistere alla cattura del mostro. Non doveva avvenire però tanto presto, poiché la zattera, malgrado gli sforzi disperati dei rematori, non riusciva a guadagnare che pochi metri ogni tanto. Sarebbe stato necessario un equipaggio triplo per spingere quella carcassa. Le grida del dugongo erano cessate e anche i fiotti di spuma non si scorgevano quasi più.
– Deve essere morto, – disse il capitano a don Pedro e a Mina che lo interrogavano.
– Lo troveremo? – chiese il primo.
– Almeno lo spero.
– Da chi sarà stato ucciso?
Don Josè invece di rispondere si curvò in avanti, fissando lo sguardo su parecchi scie luminose che solcavano il mare intorno al luogo dove doveva galleggiare il dugongo.
– Gli sword-fish! – esclamò.
– Che cosa sono? – chiese Mina.
– Specie di pescispada pericolosissimi e eccellenti da mangiare.
– Che siano stati loro a uccidere il dugongo?
– Certo! Assalgono perfino le grosse balene affondando nel loro ventre la loro spada ossea. Fanno il paio con i pescicani, quantunque assalgano molto difficilmente gli uomini che cadono in mare. Se giungiamo in tempo in mezzo a loro, poiché viaggiano sempre in buon numero, aumenteremo le nostre provviste… Ma… tò! Che cosa succede ancora laggiù? Non vedete, ragazzi?
Sembrava che ci fosse qualche battaglia intorno al dugongo. Si vedeva l’acqua alzarsi qua e là e spumeggiare furiosamente e di quando in quando apparivano delle grosse code nerastre che si agitavano rabbiosamente. Anche il bosmano si era accorto di quel fatto.
– Si battono, – disse, accostandosi al capitano.
– E chi hanno assalito gli sword-fish? – si domandò don Josè.
– Scommetto di indovinarlo.
– Spiegati dunque.
– Scommetterei la mia pipa, che mi è più preziosa in questo momento di quattro once d’oro, che dei pescicani hanno dato addosso al cadavere del dugongo e che si sono incontrati con gli sword-fish.
– Purché lascino a noi qualcosa, che si distruggano pure a vicenda, – rispose il capitano. – Gli uni non sono migliori degli altri. Forza, ragazzi! Ancora cinque minuti e arriveremo.
I marinai facevano sforzi disperati, ben sapendo che dalla cattura del dugongo, dipendeva la loro salvezza, poiché se fossero riusciti a prenderlo prima che i pescicani avessero potuto divorarlo, la carne non sarebbe certamente mancata per parecchie settimane. Intorno alle coste della Nuova Caledonia, non è raro incontrare questi cetacei, che hanno una lunghezza da cinque a sei metri e una circonferenza di tre. Anzi gli indigeni, pur essendo non meno antropofagi di quelli del gruppo delle isole Salomone e della Nuova Islanda e della Nuova Bretagna, danno loro una caccia accanita, essendo ghiottissimi della loro carne. Preferiscono prenderli vivi per dimostrare alle loro donne la loro bravura come nuotatori. Non si servono perciò né di piroghe, né di arpioni. Lo circondano, costringendolo a salire alla superficie, lo spaventano con urla selvagge, si aggrappano alle sue larghe pinne ed alla coda e lo spingono verso la riva dove lo finiscono a colpi delle loro scuri di pietra. Dopo cinque minuti, la zattera, che procedeva a balzi, rompendo fragorosamente le onde, arrivava sul luogo del combattimento. Il bosmano non si era ingannato e avrebbe vinta la scommessa e conservata la sua cara pipa. Una vera battaglia accadeva in quel tratto di mare, ed erano enormi pescicani che lottavano ferocemente contro una grossa banda di sword-fish. Del dugongo invece nessuna traccia. Era stato divorato dagli squali in pochi minuti? Era molto probabile, poiché quei mostruosi pesci possono inghiottire in due bocconi anche un uomo. I marinai, furiosi di non aver potuto raccogliere la preda tanto sospirata, avevano afferrato i remi menando colpi tremendi sulle code, sulle teste e sui dorsi dei combattenti.
– Prendiamone almeno uno!… – gridavano tutti.
Alcuni marinai si erano armati di ramponi e scagliavano colpi in tutte le direzioni, con la speranza di colpire qualche pescecane. Le mosse però degli squali e soprattutto degli sword-fish erano così fulminee che riusciva impossibile toccarli. A un tratto un marinaio, che si trovava sull’orlo della zattera, mandò un urlo terribile e fu visto stramazzare all’indietro, mentre sul suo corpo si dibatteva disperatamente una massa bruno argentea. Tre o quattro uomini, che si trovavano a poca distanza, erano balzati avanti brandendo i coltelli e urlando a squarciagola.
– Cardozo! Cardozo!
Don Josè che si trovava in quel momento a poppa, accanto al bosmano che teneva il remo, udendo quelle urla si era precipitato verso la prora, seguito subito da don Pedro, il quale si era impadronito di una scure. Il marinaio si dibatteva sempre, mandando grida disperate che diventavano di momento in momento più fioche. Sul suo petto si agitava ancora la massa bruno-argentea, malgrado i colpi di coltello che le vibravano i compagni del ferito.
– Che cosa succede? – chiese il capitano, precipitandosi avanti con una pistola in pugno. – Chi uccidete, miserabili?
– È uno sword, signore, che ha piantato la sua spada nel petto di Cardozo, – rispose un marinaio, alzando il coltello grondante di sangue. – Il maledetto pesce lo ha ferito e forse mortalmente… muori cane!
Lo sword-fish, crivellato da numerose coltellate, aveva cessato di agitarsi. Era uno dei più grossi della specie, poiché misurava non meno di tre metri e doveva pesare duecento chili. Era morto, ma la sua spada acuta era rimasta piantata profondamente nel petto del disgraziato marinaio, spezzandogli la colonna vertebrale e producendo terribili lesioni interne che dovevano cagionarne la morte a breve distanza. Non c’era da stupirsi di un simile fatto. Lo sword-fish, quando è irritato, può diventare pericolosissimo per i pescicani. Si scaglia all’impazzata perfino contro le scialuppe che attraversa con la sua solidissima spada, che raggiunge talvolta perfino i due metri di lunghezza. Don Josè, addoloratissimo per la disgrazia, dopo aver fatto scostare il terribile pesce, si era curvato sul povero marinaio, un bel giovane di venticinque anni tentando di frenare il sangue che sgorgava dalla ferita. Don Pedro e il bosmano cercavano di aiutarlo.
– È inutile capitano, – balbettò il moribondo. – La mia vita se ne va: solo Dio potrebbe fermarla. Possa almeno la mia morte aver servito di qualche aiuto ai miei camerati. Poiché se lo sword non mi colpiva non avreste potuto prenderlo, e allora…
Si era interrotto, guardando il comandante con gli occhi già vitrei, poi un fiotto di sangue gli irruppe dalle labbra contorte dagli ultimi spasimi dell’agonia, macchiandogli la casacca di tela bianca. Allargò le braccia e cadde dolcemente fra le braccia del bosmano che gli si era inginocchiato accanto, senza mandare un gemito.
– Morto? – chiese don Pedro che aveva le lacrime agli occhi.
Don Josè fece con il capo un cenno affermativo.
– Era uno dei migliori! – esclamò il bosmano con voce triste. Prese un velaccio e lo stese sul morto, borbottando una preghiera a cui risposero sottovoce i marinai che si erano raccolti intorno al cadavere.
– Dopo lo spuntare del sole, la sepoltura, – disse don Josè, allontanandosi con don Pedro.
– Triste principio del nostro viaggio, – osservò il giovane.
– Sono disgrazie che toccano agli uomini di mare, – rispose il comandante il quale nondimeno appariva preoccupato. – Non fate cattivi auguri