Il tesoro della montagna azzurra. Emilio Salgari

Il tesoro della montagna azzurra - Emilio Salgari


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in quando indietro per non perdere di vista i suoi camerati che stavano a poppa, presso il lungo remo che serviva da timone, discutendo con il bosmano. Ogni tanto canterellava sottovoce, poi bruscamente si interrompeva per dare una rapida occhiata dietro le spalle. Era una buona mezz’ora che si trovava in osservazione, quando sollevò una tavola della piattaforma traendone sette o otto pezzi di sughero, di forma piatta, simili a quelli che i balenieri chiamano doghe, e che nel mezzo portavano, segnata rozzamente con un ferro infuocato un’A.

      – Le correnti e i venti le disperderanno, – mormorò. – Ne ho gettate già più di duecento in quindici giorni. Possibile che nessuna sua stata raccolta? Oh, mio caro bosmano, il chiquiyo, sebbene giovane, è più chiquiyo di quello che tu credi!

      Gettò uno di quei pezzi di sughero, osservando la direzione che prendeva, poi ne gettò, a intervalli di cinque o sei minuti, altri quattro. Stava per lanciare il sesto, quando una mano pesante gli piombò su una spalla mentre una voce rauca, quella del bosmano, gli domandava con tono minaccioso:

      – Ehi, mozo cocido, che lavoro misterioso, stai facendo?

      – Oh, siete voi, Reton? – rispose il giovane marinaio senza voltarsi. – Come vedete, getto in mare dei pezzi di sughero.

      – Perché?

      – Per vedere se qualche sword-fish li abbocca. Ho una fiocina presso di me e vi assicuro che so servirmene.

      – Dove hai trovato quelle doghe?

      – In mezzo alle vele e ai cordami.

      – Non sapevo che ce ne fossero a bordo.

      Il mozzo alzò le spalle.

      – Ciò non mi riguarda. Io non cerco altro che di sprofondare la mia lancia nel ventre di quei pesci deliziosi.

      Il bosmano, soddisfatto di quella risposta, riaccese la pipa e tornò verso i camerati che stavano accoccolati presso il timone, consumando anche loro le ultime foglie di tabacco. Non aveva così potuto notare né il lampo maligno, né il sorriso ironico di Emanuel. La zattera intanto continuava ad avanzare lentamente, o meglio, a spostarsi verso settentrione, essendo la brezza irregolare e debole. Di quando in quando giungeva la solita ondata, il cavallone eterno del Pacifico che si ripercuote incessantemente sulle coste dei due continenti: l’Asiatico e l’Americano, e che più che altro sembra causato dal flusso e riflusso. Il galleggiante si scuoteva bruscamente, obbligando gli uomini di guardia ad aggrapparsi alla piccola murata poppiera o ai cordami dell’albero, poi ritornava ad acquistare il suo equilibrio più o meno perfetto. Alle undici la luna sorse, ma invano il bosmano e i suoi compagni aguzzarono lo sguardo con la speranza di scorgere qualche nave o qualche isola. L’immensità deserta avvolgeva i naufraghi come se fossero lontani molte migliaia di miglia dalle terre abitate.

      – Amici, – disse Reton, scotendo più volte la testa, come era sua abitudine. – Se per domani sera non incontriamo qualche isola o qualche veliero, domani l’altro saremo costretti a stringerci per bene la cintura.

      – Che la Nuova Caledonia sia scomparsa? – chiese un marinaio.

      – Eppure il capitano aveva affermato che solo qualche centinaio di miglia ci dividevano da quella terra!

      – Siamo zoppicanti, mio caro, e questa carcassa preferisce riposarsi invece che navigare.

      – Che siamo destinati a far la fine dell’equipaggio della Medusa?

      – Non mi fare accapponare la pelle, amico.

      – Non ne ho alcuna intenzione. Dico solo che se continua così, chissà come finiremo?

      In quell’istante un grido strano, che sembrava una nota metallica, echeggiò sul mare, giungendo distintamente agli orecchi degli uomini di guardia. I marinai erano balzati in piedi, spingendo lo sguardo in tutte le direzioni, mentre a prora si faceva udire la voce beffarda di Emanuel che diceva:

      – Ehi, bosmano, avete udito il diavolo?

      La luna, che si era alzata già molto sull’orizzonte, illuminava l’Oceano quasi come fosse l’alba, eppure nessun essere vivente si vedeva galleggiare sulla superficie argentea.

      – Che ci siamo ingannati? – aveva chiesto finalmente il bosmano. – O che quel furfante di Emanuel abbia detto il vero?

      – Il grido l’abbiamo udito tutti, è vero, compagni? – chiese un marinaio.

      – Sì, sì, Alonzo, – risposero gli altri.

      – Zitti, – disse il bosmano.

      Trascorse qualche minuto, poi il grido di prima, più tagliente, più vibrante, si fece nuovamente sentire.

      – Un dugongo! – esclamò il bosmano, facendo un salto. – Ecco la nostra salvezza!

      – Purché possiamo catturarlo, – disse Alonzo.

      – Quattro o cinquecento chilogrammi di carne squisita, – continuò il bosmano.

      – Da mangiarsi cruda, se non vorremo bruciare la zattera.

      – Basta non morire di fame.

      Per la terza volta il grido si ripeté, poi un fiotto d’argento si sollevò a circa quattrocento metri dalla prora della zattera e tutti poterono scorgere un grosso corpo nero mostrarsi per un istante alla luce lunare, quindi scomparire.

      – Amici, le carabine! – gridò il bosmano. – Doppia razione a chi lo colpisce.

      Un marinaio si precipitò dietro la piccola tenda dove riposavano il capitano, don Pedro e Mina, e da una cassa aveva levato quattro fucili dalla canna lunghissima e dal calcio pesante, laminato in ferro.

      – Sono carichi, disse, distribuendoli ai compagni.

      – Aspettiamo che si mostri, – rispose il bosmano. – Io, per mio conto, sono quasi sicuro del mio colpo, quantunque quel mammifero si trovi a una bella distanza. Certo che se avessi un paio di palle incatenate sarei più sicuro di colpirlo.

      Tutti e quattro in piedi sull’orlo della zattera, spiavano attentamente la comparsa del mostro marino. È una specie di balenottero per le dimensioni, con una testa strana, che finisce come una specie di tubo. A differenza degli altri pesci allatta i piccoli e si incontra non di rado nei mari equatoriali. La sua cattura, come aveva giustamente detto il mastro, sarebbe stata la salvezza dei naufraghi. Seicento chili di carne, squisita quanto quella di un vitello. Pareva però che il mammifero si fosse accorto che quegli affamati contavano sulla sua morte per rifarsi dei primi patimenti, poiché si manteneva ostinatamente sommerso. Non mostrava che l’estremità del muso e solo per qualche istante, rendendo la mira impossibile. Quando sporgeva le narici e la bocca, lanciava, e sempre con maggior vigore, quelle note stridenti che avevano impressionato gli uomini di guardia.

      – To’! – esclamò il bosmano, dopo cinque o sei minuti di attesa. – Io non ho mai udito in vita mia un dugongo urlare tanto. Che sia ferito o innamorato?

      – Innamorato? – chiese Alonzo.

      – Tu non hai mai udito i capodogli quando sono in cerca della femmina, – rispose il bosmano. – Urlano come belve feroci e anche i dugonghi manifestano a quel modo il loro amore.

      – O che sia invece ferito, come hai detto? – chiese un altro marinaio. – Io credo bosmano, che tu abbia indovinato.

      – Perché?

      – Ho visto or ora delle scie apparire e scomparire là dove nuota il dugongo.

      – Se ci sono dei pescicani laggiù non contate sulla colazione, amici, – rispose Reton. La faranno loro invece di noi.

      – Eppure non devono essere squali quelli che danno la caccia al dugongo! – esclamò Alonzo che osservava attentamente, tenendosi ritto su un barile. – Si vedrebbero le bocche fosforescenti di quegli animalacci, mentre non vedo che i raggi della luna riflessi sull’acqua.

      – Ragione di più per ingannarsi, – disse Reton.

      In quell’istante il dugongo lanciò un urlo così acuto da svegliare perfino il capitano, il quale fu pronto ad accorrere


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