Il tesoro della montagna azzurra. Emilio Salgari

Il tesoro della montagna azzurra - Emilio Salgari


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cominciarono a diventare pericolosi. Non obbedivano più né agli ordini del capitano, né a quelli del bosmano. Una sorda collera si era già da qualche tempo manifestata, specialmente contro don Pedro e sua sorella, che ritenevano responsabili di tutte le loro disgrazie. Senza quel maledetto tesoro, forse l’Andalusia non sarebbe naufragata e avrebbe ancora navigato pacificamente lungo le coste occidentali dell’America. Don Josè, che li teneva d’occhio, non aveva tardato ad accorgersi della loro irritazione e ne aveva avvertito Reton.

      – Se non tocchiamo terra al più presto o non troviamo il modo di rinnovare le provviste, non so che cosa accadrà, – disse. – Io tremo per Mina e per suo fratello. Ho già notato che alcuni marinai ieri sera fissavano con sguardo di ardente bramosia la ragazza.

      – Vivaddio! – rispose il bosmano. – Chi la tocca è un uomo morto, parola di Reton! Avete avvertito don Pedro?

      – Me ne sono ben guardato.

      – Avete fatto bene. I fucili e le munizioni sono sempre sotto la tenda?

      – Sì, Reton.

      – Badate che non li rubino.

      – Non chiudo occhio di notte.

      – Ne abbiamo nove, se non sbaglio. Se ne gettassimo almeno cinque in mare?

      – Ci avevo già pensato, ma non possiamo privarci delle armi che possono esserci necessarie sulla terra dei Kanaki, esito ad assumermi una tale responsabilità.

      – Questo è vero. Potrebbe essere una imprudenza terribile e nondimeno, un giorno o l’altro, se le cose non cambiano, saremo costretti a sbarazzarci dei fucili in più. La fame e i patimenti possono rendere feroci questi uomini.

      – E spingerli a rinnovare i mostruosi banchetti di carne umana dei naufraghi della Medusa, – aggiunse il capitano con un sospiro.

      I timori di don Josè, poiché la notte stessa, fra le dieci e le undici, sette marinai, fra i quali si trovava anche Emanuel, si raccolsero a prora della zattera e fingendo di pescare intavolarono a voce bassa una terribili discussione. Il mozzo, malgrado la sua giovane età, godeva di un certo ascendente su alcuni componenti dell’equipaggio che erano stati amici di suo padre, un bravo e coraggioso pilota.

      – Bisogna decidersi, – disse Emanuel, con voce insinuante. – Non dobbiamo lasciarci morire di fame, quando qui c’è carne in abbondanza. La terra può essere ancora molto lontana, amici, pensateci.

      – Ciò che tu proponi, ragazzo, è molto grave, – rispose John il pescatore. – Noi non siamo dei Kanaki.

      – E allora lasciati morire, – osservò un altro. – Io per mio conto sono deciso a tutto, pur di poter saziare questa tremenda fame che da tre giorni mi tormenta.

      – Morire prima o dopo è tutt’uno, – soggiunse un altro. – Se la sorte designerà me per prima vittima, non mi lamenterò, ve lo giuro.

      – Ma che sorte! – esclamò Emanuel. – Non dobbiamo affatto sacrificarci. Di chi è la colpa di tutte le nostre disgrazie? Nostra, no di certo. Senza quei due giovani che si sono messi in testa di andare a raccogliere un tesoro, noi non ci troveremo in così tristi condizioni. Mangiamo dunque loro.

      A quell’atroce proposta, fatta da quel giovane, che fino allora sembrava che avesse nutrito una profonda simpatia, se non verso don Pedro, almeno verso Mina, i marinai si erano guardati l’un l’altro con terrore, lasciando cadere le canne da pesca.

      – John, – disse uno di loro, volgendosi verso il pescatore – mettiti di guardia e avvertici se il capitano o Reton si avvicinano. L’affare è grave e non deve essere conosciuto dagli altri, quantunque io sia certo che approveranno pienamente le nostre decisioni. La fame li deciderà.

      L’americano si allontanò di alcuni passi, sdraiandosi fra due barili. Il capitano e Reton, seduti presso il timone, parlavano sommessamente e sembrava che non si fossero accorti di quella riunione di antropofagi. Gli altri marinai russavano, dispersi qua e là per il tavolato. La tenda occupata da Mina e da suo fratello era chiusa.

      – Riprendiamo il nostro discorso, – disse Emanuel. – Credete di poter aspettare ancora?

      – No, risposero in coro i marinai.

      – Credete che i vostri compagni si opporranno?

      – Nemmeno.

      – Allora chiediamo al capitano che ci dia dei viveri o che ci abbandoni la ragazza o il fratello.

      – Preferisco la prima, – osservò uno dei congiurati, con un atroce sorriso. – Sarà più tenera.

      – E se il capitano si rifiutasse? – chiesero due o tre altri.

      – Ricorreremo alla forza, – rispose Emanuel.

      – Tu dimentichi però, – osservò un gabbiere – che le armi da fuoco sono nelle mani del capitano.

      – Siamo in dodici e i coltelli e le scuri non mancano. Se hai paura, ritirati.

      – Ho troppa fame per indietreggiare.

      – Chi sarà il nostro capo?

      – Hermos, il pilota, – risposero tutti ad una voce.

      – È quello infatti che gode maggiore autorità. È il più in gamba di tutti, – osservò Emanuel. – Purché accetti.

      – Mi incarico io di farlo decidere, – disse una voce.

      In quel momento si udirono tre colpi di tosse. Il pescatore dava il segnale di finire la discussione.

      – A domani, – sussurrarono.

      Ripresero le canne e si sdraiarono bocconi fingendo di pescare. Reton, che per istinto sospettava di tutto e di tutti, avanzava cautamente verso la prora, con la speranza di sorprendere il traditore. Vedendo quella riunione di marinai la sua fronte si aggrottò.

      – Come va la pesca? – chiese.

      – Male, bosmano, – rispose il gabbiere. – non c’è carne da mettere sugli ami e i pesci non si lasciano ingannare da un pezzetto di cuoio. Bisognerà bene che il capitano si decida a fornircene, se non vuole farci morire di fame tutti.

      – E di quale carne? – domandò Reton.

      – Mil diables! – esclamò il pescatore americano, che aveva raggiunti i camerati. – Ce n’è perfino troppa su questa zattera del malanno! Uno di meno non sarà gran cosa.

      – Che vuoi dire, John? – chiese il bosmano atterrito.

      – Che così non si può andare avanti e che è arrivato il momento di prendere una decisione.

      – Quale?

      – La diremo domani al capitano.

      – Tu hai qualche brutto pensiero, Jonathan, – disse Reton.

      – Vedremo se i miei camerati lo troveranno buono o cattivo.

      – Io l’approvo già, – asserì Emanuel.

      – Taci tu, – rispose Reton con ira.

      – Siamo tutti uguali su questa zattera, perché la mia pelle vale quanto la vostra, bosmano.

      Reton, furioso, alzò la destra e lasciò andare un manrovescio; ma il marinaio, che si teneva in guardia, con un salto da coguaro fu lesto a fuggire, prorompendo in una fragorosa risata.

      – Lascia andare quel ragazzo, Reton, – soggiunse il gabbiere, vedendo che il bosmano si preparava a rinnovare l’attacco. – Sai che ama scherzare e che non conta affatto.

      – Io voglio sapere che cosa avete deciso, – disse il bosmano.

      – Ti ho detto che lo diremo domani al capitano, – rispose John. – Non c’è alcuna fretta per il momento.

      Reton, comprendendo che non sarebbe riuscito a saper nulla e non volendo irritare quegli animi troppo inaspriti dalle lunghe privazioni, si allontanò brontolando. Dopo tutto poteva ancora illudersi di essersi ingannato sul vero significato di quelle parole, non avendo assistito


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