La rivicità di Yanez. Emilio Salgari

La rivicità di Yanez - Emilio Salgari


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probabile, mio bravo – rispose Yanez. – Non ho mai avuto nessuna passione per il carri, ma in mancanza di meglio farò lavorare egualmente i miei denti ed il mio stomaco.

      Si erano messi a mangiare, mentre due montanari erano saliti sul tetto, pronti a dare l’allarme.

      Nessuno li disturbò. Pareva che i banditi di Sindhia, pessimi soldati, non si decidessero a tentare un attacco.

      – Ma noi potremo aspettare qui anche una settimana – disse Yanez al rajaputo, che era andato ad interrogare le sentinelle.

      – Eh, non fidatevi, gran sahib – rispose il gigante, accettando una sigaretta datagli dal portoghese un po’ mal volentieri, poiché la provvista era diventata piuttosto esigua. – Quegli uomini non sono guerrieri, bensí sciacalli.

      – Lo sappiamo, e che cosa vorresti dire con ciò?

      – Mi aspetto qualche brutta sorpresa.

      – Quale?

      – Che ci arrostiscano vivi.

      – Per Giove!…

      – Vi sono troppe piante e troppa paglia intorno a questa casa.

      – Non abbiamo il pozzo?

      – Per Sivah, io vi ammiro!… Non ho mai veduto un uomo piú sicuro di sé come voi, gran sahib.

      – Non sarei stato un conquistatore – rispose Yanez sorridendo. – Io penso peraltro che tu possa avere ragione, e che qualche provvedimento sarebbe necessario.

      – Ordinate, gran sahib.

      – Lancia fuori i montanari, fa’ distruggere la paglia ed atterrare le piante che circondano la casa.

      – Ne avremo il tempo?

      – Mi metterò io in sentinella sul tetto con un paio d’uomini. Tu sai già che io non spreco una carica.

      – Non vorrei trovarmi sotto la vostra mira – rispose il rajaputo.

      – Va’, il tempo stringe.

      Mentre il gigante, seguíto dai montanari, apriva la porta che era stata fortemente barricata, Yanez salí sul tetto portando con sé la lampada del bramino avvolta in uno straccio.

      L’oscurità era sempre profonda quantunque l’alba non dovesse essere molto lontana. Grosse masse di vapori continuavano ad offuscare il cielo, spinte da un vento piuttosto forte che soffiava dal nord, dalle altissime montagne dell’Himalaya.

      – Nulla? – chiese Yanez ai due montanari che si erano coricati sul tetto, tenendo le carabine dinanzi a loro.

      – No, gran sahib – rispose uno dei due. – Tuttavia non devono essere lontani, poiché poco fa abbiamo udito l’urlo d’uno sciacallo che non era affatto naturale.

      Noi montanari conosciamo troppo bene quelle bestie che infestano in gran numero le nostre montagne.

      Quelle canaglie sono cosí audaci, almeno nei nostri villaggi, da portar via fino i ragazzi.

      – Cose vecchie – disse Yanez. – Potevi raccontarle a tuo nipote, se ne hai uno.

      – Ne ho una mezza dozzina, gran sahib.

      – Avrai da chiacchierare una notte intera; ma questo non è il momento.

      Al primo urlo dello sciacallo hanno risposto?

      – Subito, gran sahib.

      Per la terza o quarta volta l’ampia fronte del Maharajah si era offuscata.

      – Per Giove!… – brontolò. – La faccenda è piú seria di quello che credevo. Che cerchino proprio di arrostirci?

      – Gran sahib…

      – Taci!…

      Yanez si era alzato sulle ginocchia ed aveva puntata la carabina.

      La canna parve che seguisse per qualche istante un’ombra, poi una formidabile detonazione ruppe il silenzio della notte, subito seguita da un grido acutissimo.

      – Preso! – disse uno dei due montanari aguzzando gli occhi.

      – Lo credo – rispose il portoghese. – Un Maharajah deve tirare come un famoso guerriero.

      – Ecco un uomo di meno che rimane a Sindhia.

      – Ben poca cosa – rispose Yanez con voce un po’ amara. – Una mitragliatrice del mio amico avrebbe già spazzato tutto il terreno intorno a questa topaia. Disgraziatamente i passaggi delle cloache erano troppo stretti per far passare quelle armi formidabili. Oh, giungeranno. Io non dispero affatto.

      Ricaricò tranquillamente la carabina e si distese sul tetto, spingendo lo sguardo lontano.

      I due montanari si erano spinti fino all’orlo del tetto, colla speranza di fare anche loro qualche buon colpo che assottigliasse le schiere troppo numerose dell’ex rajah.

      Con grande sorpresa di tutti gli assediati non si effettuò nessun attacco da parte degli assedianti. Avevano avuto paura, o volevano aspettare la luce per meglio studiare le forze degli avversari?

      – Ecco una notte perduta inutilmente – disse Yanez. – Eppure avrei avuto tanto bisogno di schiacciare un sonnellino. Quando si potrà?

      Accese un’ altra sigaretta, lanciando ben lontano il fiammifero, perché il tetto non prendesse fuoco, e s’alzò in piedi guardando da tutte le parti.

      Il sole cominciava ad apparire, fugando, con rapidità fulminea, le tenebre. Già si sa che in quelle regioni non esistono si può dire, né albe né crepuscoli.

      – Ah, ah! – fece Yanez. – Non si era ingannato il cacciatore di topi, come non si era ingannato il bramino.

      Poi volgendosi verso i due montanari, disse:

      – Su, alzatevi e guardate anche voi.

      I due uomini si alzarono subito e spinsero lontano i loro sguardi acuti sulla vasta pianura indorata dal sole, che si rompeva solamente ai bastioni mezzo sventrati della capitale.

      A cinque o seicento metri dalla fattoria, fra le risaie, si aggiravano alcune centinaia di banditi, per la maggior parte fakiri e paria, ma non vi mancavano dei minuscoli drappelli di rajaputi.

      – Che cosa dite voi? – chiese Yanez ai due montanari.

      – Che quella gente non osa attaccarci – risposero insieme.

      – Che vogliano affamarci?

      – Sarà piú probabile, gran sahib – disse il piú vecchio dei due montanari. – Arrischiano meno.

      – Ma forse c’inganniamo – disse il portoghese, alzando rapidamente la carabina. – Ecco laggiú un fakiro che si avanza verso di noi, facendo sventolare un lurido straccio. Non lo lascerò certamente avvicinar troppo.

      Quel furfante viene a spiarci fingendosi un parlamentario. Ah, no, caro mio. Non ci s’inganna cosí.

      Un uomo infatti aveva attraversato la linea dei foltissimi fichi baniani, e si avanzava lentamente facendo ondeggiare il suo straccio che doveva essere un lurido dugbah.

      Apparteneva alla casta dei fakiri chiamati nanck-punthy, subito riconoscibili per una usanza loro particolare, la cui origine è ignota, ed è quella di portare una sola scarpa ed una sola basetta.

      Aveva in testa un largo turbante, molto sporco, adorno di sonagli d’argento, ed intorno al collo delle file di perle intrecciate con fili di ferro.

      Il vestito consisteva in un gonnellino d’un colore impossibile a definirsi ed abbastanza sbrindellato.

      Questi fakiri non sono prepotenti come i saniassi, che sono veri saccheggiatori i quali s’impongono a tutti e saccheggiano senza misericordia le ortaglie dei poveri coltivatori.

      Girano in grosse bande, battendo due bastoni l’uno contro l’altro e recitando nel medesimo tempo, con una speditezza incredibile, un pezzo di qualche vecchia leggenda indiana che cantano. Guai però se la gente non fa la carità a quei miserabili! Tutte le maledizioni che


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