La rivicità di Yanez. Emilio Salgari

La rivicità di Yanez - Emilio Salgari


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avanti.

      Yanez fece colle mani portavoce, consegnando per un momento la sua carabina ad un montanaro, e gridò a pieni polmoni:

      – Che cosa vieni a fare tu qui?

      Il fakiro agitò disperatamente il suo bastone, poi rispose in lingua inglese abbastanza pura:

      – Mi manda il rajah Sindhia.

      – Che cosa vuole da noi? Delle palle di carabina?

      – La vostra resa.

      – E per trattare un simile affare manda da me un pezzente? Il tuo padrone vuole burlarsi di noi! Ti do subito un buon consiglio: non fare un passo innanzi perché ti fucilo!…

      – Sono un parlamentario, sahib.

      – Tu non sei altro che un bandito. Gira sulla tua unica scarpa, e va’ a dire ai tuoi compagni che siamo in cinquanta, ben provvisti di viveri e di munizioni, e che perciò non ci arrenderemo senza un terribile combattimento.

      – Abbiamo dei rajaputi.

      – Sí, quelli che erano ai miei servigi!… – urlò Yanez, perdendo la sua flemma abituale.

      – Ora sono del rajah, sahib.

      – Come!… Tu osi chiamarmi semplicemente signore e non Maharajah! E che cosa sono dunque io?

      – Un principe senza trono – rispose audacemente il fakiro.

      – Chi te lo ha detto?

      – Sindhia, e poi dove si trova la tua capitale, sahib?

      – Un pezzo nelle cloache ed un pezzo qui – rispose Yanez, il quale si tratteneva a stento.

      – Bella capitale!… – gridò il fakiro, con voce sardonica. – Vale meno della mia miserabile capanna.

      – Non so se la tua capanna sarà difesa come questa.

      – Forse piú ancora, perché è sempre piena di serpenti.

      – Bestie che non ci farebbero certamente paura. Ora penso che tu hai chiacchierato abbastanza, e ti invito per la seconda volta a girare sulla tua sola scarpa, prima che mi sfugga qualche colpo di carabina.

      – Un momento, gran sahib. Che cosa devo rispondere al rajah?

      – Che qui ci troviamo assai bene, che mangiamo, beviamo e fumiamo senza preoccupazioni. Ora, se credi, pezzente, da’ l’ordine ai rajaputi di attaccarci.

      – Occorrerebbe che sapessero quanti uomini avete voi.

      – Cinquanta, con due mitragliatrici.

      – Ah, le brutte bestie!

      – Ora vattene. È tempo!… Abbiamo parlato abbastanza. Va’, e non volgerti indietro.

      – Ci rivedremo piú presto di quello che credete, gran sahib -rispose il fakiro a gran voce. – Oh, vi strapperemo la corona!

      Yanez aveva appoggiato un dito sul grilletto della carabina, ma si arrestò dicendo:

      – Ba’, lo ucciderò un’altra volta, quando non agiterà piú quello straccio.

      Rispettiamo i parlamentari.

      Si sedette sul tetto guardandosi intorno.

      I dieci montanari che erano rimasti sotto, guidati dall’erculeo rajaputo, avevano portato via i covoni di paglia gettandoli entro una vicina risaia abbondantemente irrigata, ed avevano atterrati tutti i cespugli che si trovavano nelle vicinanze perché i nemici non potessero incendiarli.

      Né i rajaputi, né i paria, né i fakiri avevano osato sparare un solo colpo di fucile.

      Le mitragliatrici di Sandokan dovevano averli terribilmente impressionati; e per timore che se ne trovassero alcune anche nella fattoria, giudicandosi troppo deboli forse, erano rimasti assolutamente inattivi.

      Quella tranquillità peraltro non era fatta per assicurare completamente il portoghese.

      – Qui si giuoca davvero la mia corona – disse. – Se non viene Sandokan coi suoi prodi in mio aiuto, finiremo tutti malamente. Ba’, la guerra è la guerra, ed io sono cresciuto fra il rombo dei cannoni, delle spingarde e delle carabine. Vedremo!…

      CAPITOLO V. LA RITIRATA

      Il cacciatore di topi, appena lasciata la fattoria, si era slanciato a corsa furiosa, orientandosi alla meglio. Abituato a vivere fra le tenebre, non aveva bisogno di lumi per dirigersi; i suoi orecchi poi avevano una acutezza straordinaria.

      Quel vecchio possedeva una energia indomabile, ed aveva dei muscoli d’acciaio. Lanciato, correva come un veltro.

      Aveva già sentiti i nemici, meglio che uditi, perciò si studiava di evitarli. Disgraziatamente la notte era troppo oscura anche per un uomo abituato a vivere fra le tenebre delle cloache, ed andò a cadere fra le braccia di due rajaputi che si erano messi in agguato dietro la linea dei foltissimi fichi baniani.

      – Chi sei? – gridarono i due guerrieri, avvinghiandolo strettamente e gettandolo ruvidamente a terra.

      – Il padrone di quella fattoria che vedete laggiú – rispose il cacciatore di topi. – Sono venuti degli uomini, mi hanno puntate delle pistole alla gola, e poi mi hanno scaraventato fuori della porta come se fossi un sacco di stracci.

      – E dove fuggivi ora? – chiese il piú anziano dei due guerrieri.

      – Non lo so nemmeno io – rispose il baniano. – Correvo senza una meta fissa per paura che quegli uomini mi uccidessero.

      – Ve ne sono molti dentro quella casa?

      – Ne ho veduti molti, ma non saprei precisarti il numero, sahib. Ero troppo spaventato.

      – Non hai veduto delle armi grosse?

      – Dei cannoni?

      – No, no, degli strumenti strani che hanno delle canne disposte in forma di ventaglio, e che fanno un fuoco infernale.

      – Sí, infatti mi parve di aver veduto qualche cosa di simile.

      – Si chiamano mitragliatrici.

      – Non so che bestie siano. Io non sono che un povero coltivatore, ora irreparabilmente rovinato, poiché né il rajah, né il Maharajah, né la rhani mi compenseranno della perdita della mia fattoria.

      – Chi forse ti pagherà sarà il rajah – rispose il rajaputo.

      – Hai detto forse, sahib.

      – La guerra costa cara, ed il nostro padrone, almeno per ora, deve avere le casse vuote.

      – Allora non mi rimane che di cercare di raggiungere alcuni miei parenti che posseggono pure una fattoria, ed offrire loro le mie ultime forze per non morire di fame.

      – Si trovano molto lontani?

      – Una trentina di miglia per lo meno – rispose il cacciatore di topi.

      – Le tigri od i leopardi ti mangeranno prima di giungervi.

      – Cosí avrò finito di soffrire. Ormai sono vecchio, molto vecchio.

      – Ma correvi come un giovane sciacallo.

      – La paura mi aveva messo le ali ai piedi.

      I due rajaputi si scambiarono uno sguardo, poi quello che aveva sempre parlato, disse al compagno:

      – Lasciamo andare questo disgraziato che la guerra ha messo completamente in terra.

      – E se fosse una spia del Maharajah? – chiese il piú giovane rajaputo.

      – Non si servirebbe certamente di gente cosí vecchia. Ormai abbiamo saputo abbastanza e questo povero uomo non potrebbe darci maggiori informazioni.

      – Fa’ come vuoi.

      – Vecchio, sei libero e guardati dai cattivi incontri. Tu sai che nelle jungle si nascondono non poche belve feroci sempre affamate di carne umana.

      – Buona notte, sahib – disse il baniano, fingendosi commosso.


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