La rivicità di Yanez. Emilio Salgari

La rivicità di Yanez - Emilio Salgari


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osava dirigersi subito verso le cloache, temendo che i due rajaputi lo seguissero da lontano.

      Percorse un paio di miglia, quasi sempre correndo, poi si spinse attraverso le risaie e raggiunse i bastioni.

      Da quella parte non vi erano truppe. Forse Sindhia le aveva ammassate dinanzi alla foce del fiume nero.

      Scivolò fra le rovine, le quali conservavano ancora un po’ di tepore, e dopo d’aver fatto un lungo giro riuscí a guadagnare il sotterraneo.

      Non aveva nessuna lampada, ma già sappiamo che quello strano uomo, abituato a vivere fra le tenebre, ci vedeva quanto e forse meglio d’un gatto.

      Infilò la galleria che attraversava le rotonde e si rimise a correre. Quel vecchio aveva una resistenza assolutamente incredibile.

      Già stava per sboccare sulla banchina, quando udí delle fragorose scariche. Pareva che alla foce del fiume nero si fosse impegnata una grossa battaglia.

      Fra le schioppettate si udivano i formidabili barriti degli elefanti ed il nitrire dei cavalli.

      Il cacciatore di topi si lasciò scivolare sulla banchina, e veduto un fuoco acceso sulla riva del putrido corso d’acqua, prese subito la rincorsa, gridando:

      – Non sparate!… Sono il malabaro!…

      Intorno ad alcuni pezzi di legna si trovavano riuniti, come in consiglio, Sandokan, Tremal-Naik, Kammamuri ed il vecchio guerriero malese, che chiamavano Sambigliong.

      Vedendo giungere come una bomba, e solo, il cacciatore di topi, tutti erano balzati in piedi in preda ad una vivissima emozione.

      – Il Maharajah è stato preso, è vero? – gli chiese Sandokan.

      – Non preso, ma si trova assediato in aperta campagna, dentro una solida fattoria, dietro le cui mura i suoi compagni potranno resistere qualche giorno.

      – A quale distanza dai bastioni?

      – A due miglia. Stavamo per fare raccolta di foglie pei vostri elefanti, quando le genti di Sindhia ci sono piombati addosso, e con tale rapidità, che io solo ho avuto il tempo di fuggire per portarvi la poco allegra notizia.

      – Ed il bramino? – chiese Tremal-Naik.

      – Anche quello si è messo in salvo. Non doveva, d’altronde, affrontare alcun pericolo essendo troppo conosciuto nei campi del rajah.

      – Dimmi – disse Sandokan, il quale aveva riacquistato prontamente il suo straordinario sangue freddo – quanto potrebbe resistere il Maharajah?

      – Non saprei dirvelo, gran sahib. Tutto dipende dalla tenacia e dal coraggio degli assedianti.

      – Erano in molti?

      – Cinque o seicento, per lo meno.

      – Mentre i nostri non sono che tredici. Noi non abbiamo piú il tempo di attendere che i germi del colera si sviluppino, se pure si svilupperanno. Io già non ho mai avuto fiducia alcuna di quelle bottiglie.

      Quell’olandese avrebbe fatto meglio a prepararci delle granate a mano. Che cosa dici tu, Tremal-Naik?

      – Lo credo anch’io – rispose il cacciatore della Jungla nera.

      – Che cosa dobbiamo decidere? Noi non possiamo piú rimanere qui, anche perché gli elefanti ed i cavalli sono alle prese colla fame. Prima che si indeboliscano completamente, serviamocene.

      Faremo una carica furiosa con tutte le nostre bestie e correremo in aiuto di Yanez.

      – Sei sempre lo stesso – disse Tremal-Naik. – Tu non hai mai contato i tuoi avverarsi.

      – Ho sempre avuto questa bella abitudine, e non ho mai avuto da pentirmene.

      – E liberato Yanez dove andremo?

      – Ci rifugeremo fra i montanari di Sadhja. Lassú Sindhia non verrà a scovarci, te lo dico io.

      – Ed intanto lui s’impadronirà di tutte le migliori città dell’Assam che noi non possiamo difendere.

      – Ma gliele riprenderemo – rispose Sandokan. – Ormai questo famoso impero, per il quale non darei cento rupie, poiché rende piú noie che utile, è da riconquistare da cima a fondo.

      – Un’impresa un po’ dura.

      – Ma è il nostro mestiere quello di battagliare continuamente. A Mompracem, ora che gl’inglesi mi lasciano tranquillo, cominciavo ad annoiarmi mortalmente.

      Guardò bene in viso il cacciatore di topi, il quale non aveva mai pronunciata una parola, e gli chiese:

      – Tu sapresti condurci, senza farci smarrire la via, fino alla fattoria?

      – Rispondo pienamente, gran sahib – rispose il baniano. – Collocatemi dietro il cornac che guiderà il primo elefante, e vedrete che noi marceremo, o meglio, galopperemo diritti verso i grandi fichi baniani.

      Sandokan guardò l’orologio:

      – Sono le tre: approfittiamo dell’ora di tenebre che regnerà ancora. Farà caldo, l’impresa sarà dura, ma io non dispero affatto. Sindhia non ha che una marmaglia che cederà subito al primo attacco.

      – Ed i rajaputi? – chiese Kammamuri.

      – Ne abbiamo ammazzati tanti nelle jungle che credo ne siano rimasti ben pochi a Sindhia.

      – E poi una parte di quei solidi guerrieri sono impegnati intorno alla fattoria.

      Sandokan esaminò la carabina e le pistole, fece scorrere la scimitarra piú volte entro la guaina, poi disse con voce risoluta:

      – Andiamo: succederà un massacro, ma non lo possiamo evitare.

      Si misero tutti in marcia, senza curarsi di spegnere il fuoco, e raggiunsero il luogo dove si trovavano gli elefanti ed i cavalli.

      Le povere bestie, straziate dalla fame, empivano la grande cloaca di fragori formidabili.

      Invano i cornac, con carezze e con dolci parole, cercavano di calmare i giganteschi pachidermi, i quali erano diventati furiosi. L’olandese era nell’houdah contenente le sue famose casse piene di bottiglie micidiali, almeno cosí affermava lui.

      – Signor Wan Horn, – disse Sandokan – mettete a dormire le vostre bestioline e preparate le vostre armi da fuoco.

      – Come!… – esclamò il dottore. – Si parte senza attendere lo sviluppo dei bacilli virgola?

      – Non abbiamo tempo da perdere, signore – disse Sandokan un po’ ruvidamente. – Io, d’altronde, ho sempre avuto piú fiducia nelle mie mitragliatrici e nei kampilangs dei miei uomini.

      – Oh, le genti di Sindhia morranno ugualmente – rispose l’olandese colla sua solita flemma.

      Attorno agli elefanti ed ai cavalli vi erano i cornac e due dozzine di malesi. Sandokan diede alcuni ordini con voce rapida.

      – Vi aspettiamo – disse poi – all’uscita della grande cloaca. Badate che le mitragliatrici siano tutte cariche. È soprattutto su quelle armi che io conto.

      Poi, seguíto dai suoi compagni, e preceduto dal cacciatore di topi, che aveva accesa un’altra torcia, si slanciò a passi rapidi attraverso la banchina.

      Alla foce del fiume nero non si combatteva piú. I banditi di Sindhia, dopo aver fatto un debole tentativo per forzare l’entrata, si erano lestamente ritirati dinanzi alle grosse carabine dei malesi e dei dayaki che li mitragliavano inesorabilmente.

      Quando Sandokan giunse, i suoi uomini, saputo di che cosa si trattava, erano già pronti ad impegnare la lotta. Come il loro formidabile capo, quei terribili pirati dei mari della Malesia, avevano presa l’abitudine di montare all’abbordaggio, di montare all’assalto senza mai chiedersi quanta gente avessero dinanzi.

      Erano guerrieri che non temevano né cannoni, né baionette. A troppe vittorie li aveva condotti la Tigre della Malesia, ed erano sempre pronti a impegnare qualunque combattimento.

      – Con cinquantamila di questi uomini si può conquistare l’Asia


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