La tigre della Malesia. Emilio Salgari
suo cuore, che scuotevano le fibre d’acciaio del suo corpo e che gli giungevano agli orecchi come musica divina. Egli era là, muto, anelante, rattenendo il respiro quasi temesse turbare coll’alito quella voce melodiosa, cogli occhi fissi su colei che cantava: pareva che volesse attirare quelle parole, inebbriarsi di quei suoni, scolpirsi in mente le dolcezze di quella lingua ignota.
Quando la giovanetta finì, quando quell’impareggiabile voce, dopo di aver vibrato con novella energia morì sulle corde della mandola, egli era ancora là, colle braccia tese come attirasse l’incantatrice, collo sguardo fiammeggiante fisso in quello umido di lei, colle labbra frementi, colle orecchie tese, col cuor sospeso. Ascoltava ancora e avrebbe voluto ascoltar sempre. La voce del lord lo trasse da quell’estasi dov’era piombato.
– Ebbene, mio prode amico, come trovate la romanza di mia nepote?
– Oh! – esclamò Sandokan con slancio appassionato e quasi selvaggio. – La trovai sublime come era sublime colei che la cantava. Nel mio paese non ho mai udito una simile voce più dolce del mormorio dei ruscelli, più modulata del gorgheggio degli uccelli!…
Il lord sorrise mentre la giovanetta arrossiva guardandolo fisso.
La conversazione durò ancora qualche tempo aggirandosi ora sui pirati, ora sulla penisola malese ed ora su Labuan, poi essendosi fatto tardi, il lord si ritirò colla nepote, dopo di aver stretto la mano che il pirata francamente gli porgeva.
Il pirata rimasto solo, stette a lungo a guardare la porta per la quale erano usciti, come uomo che medita: poi si scosse bruscamente. Il suo volto poco prima pallido erasi allora coperto di un vivo rosso e gli occhi poco prima malinconici si erano dilatati enormemente.
Qualche cosa gli rumoreggiò in fondo al petto ma non uscì; le labbra che fremevano come avessero la febbre si chiusero e i denti si strinsero come volessero impedire l’uscita di una frase che pareva volesse irrompere.
Stette così un minuto, due, tre, tutto in sudore, colle mani nei capelli, ansante poi le labbra si schiusero:
– Ah! – esclamò egli con una voce che pareva quella di una belva e improntata di un vivo spavento. – L’amerei io forse?…
CAPITOLO VIII. La guarigione
Marianna dei conti Guillonk era nata sotto il bel cielo d’Italia da padre inglese e da madre napoletana. Perduti ancor fanciullina i genitori, ed erede di una cospicua sostanza, era stata raccolta da lord James suo zio, uno dei più intrepidi lupi di mare della flotta britannica, un vero marinaio d’antica schiatta, ruvido, quasi direi brutale, incapace di provare affezione per chicchessia e quindi incapace di provare affezione per l’orfana.
Questo lupo di mare, imbarazzato di trovarsi fra le braccia una nepote, e non fidandosi d’altra parte d’abbandonarla a mani straniere, per nulla disposto allora a piantar radici in terra, l’aveva per così dire rapita dalle spiaggie napoletane portandola seco sui mari. Per più di sei anni l’aveva abituata alla dura vita marinaresca, per più di sei anni l’avea menata a ramingar pel mondo da un porto all’altro, da un’isola a un’altra, da un continente a un altro, fino a che un bel dì, per un inesplicabil capriccio, si era fermato a Labuan dove aveva piantato casa.
Una volta collocata la fanciulla, datale per compagna una napoletana, l’aveva abbandonata completamente a sé stessa, affaccendandosi a cacciare da mane a sera nelle foreste dell’isola o a tentare spedizioni contro i pirati che si era giurato di sterminare.
Mai che il lupo avesse rivolto una dolce parola all’orfana, mai che avesse dimostrato per lei qualche affetto. Si contentava di non contrariare i gusti di lei, pur sempre tenendola in certo qual modo prigioniera fra quelle foreste, come fosse geloso che le fuggisse.
Marianna a tal modo era cresciuta come una specie di selvaggia fra quei boschi, segregata dal mondo civile, contraccambiando, nel fondo dell’anima, l’indifferenza del rozzo lupo di mare.
Si era rinchiusa in quel piccolo mondo cinto d’alberi e recinto di fiori che coltivava con passione, e benché avesse per lungo tempo rimpianto le pittoresche rive del Tirreno, aveva finito a poco a poco coll’abituarsi a quella vita austera, ma che non mancava di poesia, coltivandosi da sé, in una maniera tutta sua.
Amava circondarsi di fiori perché in certo qual modo le rammentavano quelli della sua patria, amava l’immensità perché sapeva trovarvi la poesia del suo paese, amava il mare perché le ricordava quello delle spiaggie napoletane, amava la musica perché le sembrava la voce dei suoi compatrioti. Era cresciuta coraggiosa ed energica quanto dolce e sensibile. Scorrazzava intrepida, quale Diana cacciatrice, le foreste, affrontando arditamente il cignale, sfidando la tigre stessa che ritiravasi dinanzi la canna dell’infallibile sua carabina, inseguendo leggera come un capriolo il babirussa. Attraversava da sola tutte le foreste, senza temere il selvaggio imboscato, pel solo scopo di spingersi fino al mare per vederlo calmo o irritato e gorgheggiare sulle sue rive al tramontar del sole, o per destare gli echi dei boschi col dolce suono della chitarra o della mandola, o per guizzare come una naiade nelle baie, per nulla impaurita della presenza dei pesci-cani.
Se era intrepida altrettanto era buona e dolce, pietosa. Si recava presso i selvaggi accampati nelle paludi per recare loro soccorsi. Aiutava gli uni e gli altri, curava i feriti o gli ammalati, in maniera che tutti quelli dei dintorni la riguardavano come un buon genio e l’ammiravano come fosse una donna soprannaturale. Tutti accorrevano da lei, dalla Perla di Labuan come la chiamavano, sicuri che non li avrebbe respinti, e sarebbe forse bastata una sua parola, un cenno, per sollevare quei bruti, e avventarli contro i suoi compatrioti. S’era in certo qual modo formato un piccolo regno, dove imperava padrona assoluta, s’era formato un piccolo mondo che lei dirigeva a capriccio.
Marianna era giunta così in sui diciassett’anni crescendo libera e doppiamente libera dopo la morte della sua compagna napoletana, che aveva amato come una seconda madre e lungamente pianta, come si può piangere l’ultimo ricordo che rammenti la patria lontana e che in sul più bello si spenga.
Era cresciuta fra quelle grandi foreste che amava forse come quelle degli Appennini o del Vesuvio, su quelle spiagge ben differenti ma che riguardava come quelle incantate del Tirreno, cresciuta solitaria, orfana, senza un affetto, senza una carezza, senza una dolce parola.
Non aveva mai provato fino allora le emozioni sublimi dell’amore, in mezzo ai suoi boschi non aveva mai udito il suo cuoricino palpitare affannosamente, battere in una nuova maniera; ma dopo che aveva veduto il pirata, ché non sognava né sospettava in lui la sanguinaria Tigre della Malesia, dopo di aver mirato quell’ardita figura di selvaggio, che aveva la nobiltà di un sultano e la galanteria di un cavaliero d’Europa, dopo di aver mirato quel fiero volto che aveva del guerriero e dell’eroe, e quegli occhi scintillanti dai quali trapelava il coraggio indomito di una natura eccezionale, lei, la fragile e cara fanciulla, aveva provato un inesplicabile turbamento, una emozione insolita, aveva sentito un fuoco strano invaderla, fuoco che scorrevale più rapido per le vene, man mano destavansi le ardenti passioni della sua natura meridionale.
Dopo di aver favellato con lui, di averlo affascinato coll’incantesimo della sua voce, col suo sorriso, col suo sguardo, era stata alla sua volta affascinata, e invano cercava spezzare questo fascino che la turbava, fascino che minacciava inghiottirla, invano cercava allontanare quegli occhi scolpiti sul suo cuore che bruciavano come carboni ardenti, e invano cercava stordirsi seppellendosi fra i suoi fiori, ma senza più trovare quella calma, quella serenità che provava prima di aver veduto il pirata.
Se Sandokan però aveva ammaliato lei, lei aveva pure ammaliato Sandokan. Entrambi lo dovevano comprendere, poiché entrambi provavano le medesime emozioni, i medesimi battiti, la medesima fiamma; i loro pensieri se avessero potuto confidarseli li avrebbero trovati stessi, eguali come i loro sentimenti.
All’indomani Marianna era ancora dal pirata assieme al lord, il quale trovava dilettevole la compagnia del ferito, che riguardava sempre come uno dei più arditi guerrieri della Malesia, che parlava di guerra, di marina, che raccontava le sue sanguinose spedizioni contro i pirati delle coste, o le grandi caccie intraprese nell’interno della penisola.
La giovinetta prestava pur essa orecchio a quei fantastici racconti ammirando sempre più quel preteso Malese che ai suoi occhi prendeva la figura