Le due tigri. Emilio Salgari

Le due tigri - Emilio Salgari


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– Mio caro Suyodhana, avrai ben presto notizie di Tremal-Naik e della Tigre della Malesia.

      In quel momento si udirono un fragor di catene e un tonfo, poi dei comandi, quindi si sentí una scossa piuttosto brusca.

      – Hanno gettato le ancore, – disse Yanez, alzandosi. – Saliamo, Sandokan.

      Vuotarono le tazze e rimontarono sulla tolda.

      La notte era scesa già da un paio d’ore, avvolgendo le pagode della città nera e i campanili, le cupole ed i grandiosi palazzi della città bianca, ma miriadi di fanali e di lumi scintillavano lungo le ampie gettate, nello Strand e nei superbi squares che sono annoverati tra i piú belli del mondo.

      Sul fiume, che in quel luogo era largo piú d’un chilometro, un numero infinito di navi a vapore ed a vela, provenienti da tutte le parti del mondo, ondulavano sulle loro ancore, coi fanali regolamentari accesi.

      La Marianna si era ancorata verso gli ultimi bastioni del forte William, la cui massa imponente giganteggiava fra le tenebre.

      Sandokan si assicurò se le ancore avevano preso buon fondo, fece abbassare le immense vele che sfioravano le grab vicine poi ordinò di calare la bandiera.

      – È quasi mezzanotte, – disse a Kammamuri. – Possiamo recarci dal tuo padrone?

      – Sí, ma vi consiglierei di indossare un costume meno vistoso per non allarmare le spie dei Thugs. Io ed il mio padrone abbiamo la certezza di essere sorvegliati dai banditi di Suyodhana.

      – Ci vestiremo da indiani, – rispose Sandokan.

      – E meglio ancora da sudra – disse Kammamuri.

      – Che cosa sono questi?

      – Servi, signore.

      – L’idea è buona. Le vesti non mancano a bordo; vieni ad acconciarci in modo da poter ingannare le spie e cominciamo la nostra campagna.

      – Se la Tigre dell’India è furba, quella della Malesia non lo sarà meno. Vieni, Yanez.

      Capitolo III. TREMAL-NAIK

      Mezz’ora dopo la baleniera della Marianna scendeva il fiume, montata da Sandokan, Yanez, Kammamuri e da sei robusti malesi dell’equipaggio.

      I due comandanti del praho si erano camuffati da servi indiani, annodandosi intorno ai fianchi un largo pezzo di tela, il dootée, e coprendosi le spalle con una specie di mantello di tela grossolana, di color marrone, il dubgah.

      Entro la fascia però avevano nascoste un paio di pistole dalla canna lunga e il kriss malese, quel terribile pugnale a lama serpeggiante lungo piú d’un piede, che produce delle ferite orribili che di rado guariscono perfettamente.

      La città era ormai immersa nelle tenebre, essendo stati spenti tutti i fanali delle gettate e degli squares; solamente i fanali delle navi rispecchiavano le loro luci bianche, verdi e rosse nelle oscure acque del fiume.

      La baleniera filò fra i velieri, le grab, i pariah, le pinasse ed i piroscafi che ingombravano le due rive, poi si diresse verso i bastioni meridionali del forte William, approdando dinanzi alla spianata che in quel momento era buia e deserta.

      – Ci siamo, – disse Kammamuri. – La via Durumtolah è a pochi passi.

      – Abita un bengalow? – chiese Yanez.

      – No, un vecchio palazzo indiano che un tempo era abitato dal defunto capitano Macpherson e che ereditò dopo la morte di Ada.

      – Guidaci, – disse Sandokan.

      Scese a terra, poi volgendosi verso i malesi, disse:

      – Voi rimarrete qui ad aspettarci.

      – Sí capitano, – rispose il timoniere, che aveva guidata la baleniera.

      Kammamuri si era messo in marcia inoltrandosi attraverso la vasta spianata. Sandokan e Yanez lo avevano seguito tenendo una mano sotto il dubgah per essere piú pronti a estrarre le armi nel caso che fosse stato bisogno di servirsene.

      La spianata però era deserta o almeno appariva tale, poiché in quell’oscurità non era facile poter distinguere un uomo.

      Dopo pochi minuti imboccarono la via Durumtolah, fermandosi dinanzi ad un vecchio palazzo di stile indiano, di forma quadrata, sormontato da tre piccole cupole e da terrazze.

      Kammamuri trasse una chiave e la introdusse nella toppa. Stava per aprire la porta, quando Sandokan, la cui vista era piú acuta di quella dei compagni, scorse un’ombra umana staccarsi da una delle colonne che reggevano una piccola veranda e allontanarsi rapidamente, scomparendo fra le tenebre.

      Per un momento ebbe l’idea di precipitarsi sulle tracce del fuggitivo; però si trattenne temendo di cadere in qualche agguato.

      – L’avete scorto quell’uomo? – chiese a Kammamuri e a Yanez.

      – Chi? – domandarono a una voce il portoghese e il maharatto.

      – Un uomo che si teneva celato dietro a una di quelle colonne. Avevi ragione Kammamuri di sospettare che i Thugs sorveglino la casa. Ne abbiamo avuto or ora la prova. Poco importa; quello spione non ha potuto vederci in viso con questa oscurità, e poi non mi conosce. Cercheremo però di sorprenderlo.

      Kammamuri aprí la porta che poi richiuse senza far rumore e salita una scala di marmo che era ancora illuminata da una specie di lanterna cinese, introdusse i due comandanti del praho in una saletta ammobiliata semplicemente all’inglese, con sedia e tavola di bambú artisticamente lavorate.

      Un globo di cristallo azzurro, sospeso al soffitto, proiettava una luce dolcissima, facendo scintillare le pietre lucidissime del pavimento, graziosamente intarsiate in nero, in rosso ed in giallo.

      Erano appena entrati, quando una porta s’apri e un uomo si precipitò fra le braccia di Sandokan prima, poi fra quelle di Yanez, esclamando:

      – Miei amici! Miei valorosi amici! Quanto vi ringrazio di essere venuti. Voi mi renderete la mia Darma, è vero?

      L’uomo che cosí parlava era un bellissimo tipo d’indiano bengalino, di trentacinque o trentasei anni, dalla taglia elegante e flessuosa senz’essere magra, dai lineamenti fini ed energici colla pelle lievemente abbronzata e lucentissima e gli occhi nerissimi e pieni di fuoco.

      Vestiva come i ricchi indiani modernizzati della Young-India, i quali hanno ormai lasciato il dootée e il dubgah pel costume anglo-indiano, piú semplice, ma anche piú comodo: giacca di tela con alamari di seta, fascia, ricamata e altissima, calzoni stretti, pure bianchi e turbantino ricamato.

      Sandokan e Yanez avevano contraccambiato l’abbraccio dell’indiano, poi il primo gli aveva risposto con voce affettuosa:

      – Calmati, Tremal-Naik, se noi abbiamo lasciata la nostra selvaggia Mompracem e siamo qui, vuol dire che siamo pronti a impegnare la lotta contro Suyodhana e tutti i suoi sanguinari banditi.

      – La mia Darma! – gridò l’indiano con un singhiozzo straziante, mentre si comprimeva gli occhi come per impedire alle lacrime di sgorgare.

      – La ritroveremo, – disse Sandokan. – Tu sai che cosa è stata capace di fare la Tigre della Malesia, quando tu eri prigioniero di James Brooke, il rajah di Sarawak.

      Se io ho detronizzato quell’uomo che si chiamava lo sterminatore dei pirati e che con una sola parola faceva tremare tutti i sultani e i rajah del Borneo, saprò vincere anche Suyodhana e costringerlo a renderti la figlia.

      – Sí, – disse Tremal-Naik, – tu e Yanez soli potreste misurarvi contro quei settari maledetti, contro quei sanguinari adoratori di Kalí e vincerli. Ah! Se dovessi perdere anche la figlia, dopo d’aver perduto la mia Ada, la sola donna che io abbia amata al mondo, sento che non sopravviverei e che impazzirei.

      Aver tanto lottato e sofferto per strappare a quei mostri la donna che doveva diventare un giorno mia moglie e veder ora nelle loro mani mia figlia. È troppo! Sento che il mio cuore scoppia.

      – Tranquillizzati, Tremal-Naik, – disse Yanez, che era vivamente commosso pel profondo dolore dell’indiano.


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