Le stragi delle Filipine. Emilio Salgari

Le stragi delle Filipine - Emilio Salgari


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una domanda.

      – Sono la schiava del mio signore, che può chiedermi tutto.

      – Sapresti dirmi perché Hang-Tu è rimasto a Manilla?…

      – Forse.

      – Hai udito parlare della Perla di Manilla?…

      La fanciulla non rispose.

      – Mi hai udito?…

      – Sí, mio signore, – rispose Than-Kiú, con un accento nel quale si sentiva come una vibrazione triste.

      – La conosci?…

      – Il Fiore delle Perle può aver udito parlare della Perla di Manilla, ma le perle del mio paese non hanno voce.

      – Che cosa vuoi dire? – chiese Romero, con stupore.

      Invece di rispondere alla domanda, Than-Kiú arrestò il proprio cavallo dicendo:

      – Taci: ascolta!…

      Attraverso la foresta si udiva allora come un lontano rimbombo, che rapidamente s’avvicinava. Pareva che un grosso numero di pesanti animali galoppasse in mezzo o ai margini di quell’enorme agglomerato di piante, dirigendosi verso la capitale delle Filippine.

      – Gli spagnuoli? – chiese Romero.

      – Sí, – rispose Than-Kiú, con un tono di voce che tradiva una viva inquietudine.

      – Qualche squadrone di cavalleggeri che ritorna?…

      – Di certo, ma vorrei sapere perché corrono verso la capitale, mentre gl’insorti si battono a Bulacan, a Cavite, a Salitran ed a Malaban.

      – Che temano un colpo di mano sulla Ciudad?…

      – Lo ignoro, – rispose la giovane chinese, ma con un certo imbarazzo che non isfuggí al meticcio.

      – O lo sai? – chiese questi.

      – Taci, mio signore, o ci faremo prendere.

      Con un agilità sorprendente era balzata a terra, ed aveva fatto sdraiare il suo cavallo sotto le ampie foglie d’un gruppo di sagu, avvolgendo la testa dell’animale in una ricca gualdrappa infioccata, che aveva tolta dall’arcione.

      I due malesi ed il meticcio fecero altrettanto e si nascosero dietro i quattro cavalli coi fucili in mano.

      Il fragore s’avvicinava sempre. Ormai non si poteva piú ingannarsi: un grosso gruppo di cavalli, forse uno squadrone galoppava attraverso la foresta movendo verso la capitale.

      Di tratto in tratto si udivano anche i tintinnii delle sciabole dei cavalieri e dei comandi imperiosi.

      Dieci minuti dopo i quattro insorti videro sfilare, a meno di cento passi, una lunga fila di cavalli montati da soldati spagnuoli, i quali tenevano in mano una lunga fila di moschetti come se temessero qualche improvvisa sorpresa.

      Era uno squadrone del reggimento Luzon, in pieno assetto di guerra. Fortunatamente non s’accorse della presenza dei quattro ribelli e passò oltre scomparendo fra le tenebre.

      Than-Kiú attese che si allontanasse, poi quando ogni rumore cessò fece rialzare il cavallo, balzò in arcione e si rimise in marcia, facendo cenno a Romero e ai due malesi di seguirla.

      Pareva molto inquieta e preoccupata. Non rispondeva piú alle domande di Romero e di tratto in tratto si fermava per ascoltare.

      Un quarto d’ora dopo un altro fragore simile al primo si udí, ma verso la riva del Passig. Pareva che un altro squadrone di cavalleggeri si dirigesse verso la capitale.

      Than-Kiú si era nuovamente arrestata, interrogando i due malesi in una lingua che il meticcio non comprendeva, poi aveva ripreso le mosse, ma eccitando il suo cavallo. Aveva però preso un’altra direzione, come se volesse avvicinarsi al canale meridionale del Passig che va a finire verso Las Pinas.

      La marcia continuò per un’altra mezz’ora sempre in mezzo al bosco, poi la giovane chinese tornò ad arrestarsi. Scese nuovamente di sella e si fermò dinanzi al proprio cavallo, incrociando le braccia sul seno, ma senza pronunciare sillaba.

      – Che cosa vuoi? – chiese Romero.

      – Bisogna arrestarci qui, mio signore, – rispose ella.

      – Perché?

      – Gli spagnuoli hanno chiuso tutti i passi. Ho scorto or ora i fuochi dei loro accampamenti.

      – Ritorniamo a Manilla?…

      Than-Kiú scosse il capo, dicendo:

      – No: attenderemo la notte ventura.

      – Nascosti qui?…

      – Than-Kiú offrirà un ricovero al suo signore.

      Prese il cavallo per la briglia, si cacciò in mezzo ad un macchione enorme di aranci, di borassi, di banani selvatici e di alberi gommiferi che colle loro smisurate foglie dovevano anche, in pieno meriggio, proiettare un’ombra assai cupa, e poco dopo s’arrestava dinanzi ad una casupola mezzo diroccata, dicendo:

      – Ecco il rifugio degli insorti quando sono costretti ad arrestarsi. Il mio signore non correrà pericolo alcuno.

      Capitolo VI. I MISTERI DI THAN-KIÚ

      Quella casupola sepolta in mezzo alla foresta che serviva di rifugio agli insorti provenienti dai campi delle provincie meridionali, recanti notizie dei congiurati di Manilla, era una vera catapecchia, colle pareti di tronchi d’albero sconnesse, col tetto crollante, ma circondata da quattro o cinque felci colossali che la celavano completamente.

      Anche passando vicino al macchione, nessuno di certo avrebbe potuto supporne l’esistenza; poteva quindi sfuggire anche alle indagini degli spagnuoli, i quali d’altronde non si occupavano delle bande e degli insorti.

      Udendo avvicinarsi i cavalli, un uomo era uscito tenendo in mano un vecchio moschettone. Non era né un tagalo, né un chinese, un malese, ma uno di quei brutti abitanti dell’interno delle isole chiamati igoroti o negritos eta, veri pigmei, poiché di rado superano l’altezza di un metro e quaranta centimetri, coi capelli lanosi come quelli dei negri, il viso corto, le pinne del naso allargate, le labbra grosse, gli occhi piccoli, il corpo esile, le spalle curve e la pelle nerastra, fuligginosa.

      Questi strani esseri, che per la loro tinta e pei loro lineamenti si staccano completamente dai tagali, sono veri selvaggi che errano sui monti e fra i boschi dell’interno senza fabbricarsi ricoveri, nutrendosi di radici, di miele, di frutta, o di selvaggina quando riescono ad abbatterne qualche capo.

      Vedendo Than-Kiú ed i due malesi che doveva aver riconosciuti quantunque l’oscurità fosse intensa sotto le grandi felci, abbassò il moschetto e si tirò da un lato per lasciar entrare la giovane chinese ed il meticcio.

      L’interno della casupola non valeva meglio dell’esterno. Era uno stanzone ingombro di armi da fuoco e da taglio e di alcuni mucchi di foglie secche che dovevano servire da letti, ed ammobiliato con una rozza tavola ed alcune scranne di bambú, forse costruite dal negrito. Un ramo resinoso, che spandeva piú fumo che luce, cacciato in un crepaccio del suolo, lo illuminava, ma cosí scarsamente che gli angoli rimanevano immersi nell’oscurità.

      Il meticcio, stanco delle vicende della notte e dalle fatiche, si era lasciato cadere su di una scranna, mentre la giovane chinese si era appoggiata alla tavola senza sbarazzarsi né del cappello né del mantello. Aveva voltato le spalle alla luce della torcia, ma spiava ogni minimo movimento di Romero e sembrava che si tenesse pronta ad ogni suo cenno.

      Pareva però che il meticcio si fosse completamente dimenticato della sua compagna di viaggio e che la lunga veglia lo avesse vinto poiché non si era piú mosso.

      Il ramo resinoso si era spento e l’oscurità aveva invaso bruscamente l’interno della capanna, ma né l’uno, né l’altro avevano pronunciato una sola sillaba.

      Due volte i malesi che si erano messi di guardia dinanzi alla porta della capanna, erano entrati per chiedere forse degli ordini o per accendere una nuova torcia, ma Than-Kiú, con un gesto silenzioso, li aveva rimandati,


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