Le stragi delle Filipine. Emilio Salgari

Le stragi delle Filipine - Emilio Salgari


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che conosceva a menadito la città, avendovi soggiornato a lungo, dopo aver attraversato parecchie vie, tenendosi prudentemente addosso ai muri per non incappare in qualche guardia notturna, pochi minuti prima della mezzanotte giungeva dinanzi ad un edificio maestoso, che aveva piú l’apparenza d’una fortezza che d’un palazzo, colle mura annerite ed al pari delle altre screpolate per le convulsioni del suolo, spalleggiato da un ampio giardino difeso da alte muraglie merlate, ma in parecchi luoghi diroccate.

      Nessun filo di luce trapelava attraverso le persiane delle numerosissime finestre e nemmeno dinanzi al grandioso portone vegliava alcuna sentinella.

      Romero gettò all’interno un lungo sguardo, poi rassicurato di essere affatto solo, seguí le mura del giardino finché si trovò dinanzi ad un piccolo padiglione di pietra, sormontato da un terrazzo coperto di grandi vasi di fiori.

      Qualche sprazzo di luce filtrava attraverso le persiane del pianterreno le quali erano cosí basse che un uomo di media statura avrebbe potuto aprirle.

      – M’aspetta, – mormorò. – Povera Teresita!…

      S’avvicinò ad una finestra, e dopo una breve esitazione batté, colle nocche delle dita, alcuni colpi.

      Un istante dopo la porticina del padiglione s’apriva senza far rumore ed il meticcio entrava in un elegante salotto colle tende di percallo azzurro, adorno di grandi vasi di porcellana chinese o giapponese e contenenti delle piante rare, i cui fiori spandevano all’intorno dei profumi acuti, tanto cari alle donne spagnuole.

      Una lampada pure chinese, velata di pizzi, lasciava cadere una pallida luce, la quale si rifletteva sui tavolini chinesi laccati e sulle poltroncine di bambú pure incrostate di lacca e di scagliette di madreperla, che ammobiliavano la stanza.

      Teresita, vestita d’un semplice accappatoio bianco a ricami, ma che faceva spiccare doppiamente la sua bruna carnagione ed i suoi occhi neri, con una rapida mossa aveva preso Romero per una mano traendolo sotto la lampada, mentre Manuelita, la sua fida donna, una bellissima ragazza tagala, dagli occhioni dolci, quantunque leggermente obliqui, s’affrettava a chiudere la porta.

      – Grazie, Romero, – disse la fanciulla, con voce rotta. – Avevo dubitato per un istante che tu venissi, ma vedo che mi ero ingannata e che ti avevo giudicato male.

      – Hai dubitato, – disse il meticcio, – e perché, Teresita?…

      – E me lo chiedi?… Temevo che tu ormai avessi dimenticato la figlia di colui che si è mostrato cosí spietato verso di te.

      – Io non odio tuo padre.

      – Lui!… che ti ha condannato a morte, che ha distrutto le tue ricchezze, che ti ha reso povero ed infelice e che ti ha costretto a riparare in terra straniera?…

      – Un soldato deve compiere il proprio dovere, Teresita. Un altro qualunque, al suo posto, avrebbe fatto altrettanto contro di me, che mi ero schierato fra i nemici della tua patria.

      – Ma lui ti odia, Romero, – disse la fanciulla, con uno scroscio di pianto.

      – Lo so, Teresita, – rispose il meticcio, con voce cupa, – pure io non l’odio. In lui io non vedo che un nemico dell’indipendenza delle isole, e null’altro. A lui ho perdonato tutto, il suo disprezzo verso di me, perché nelle mie vene non scorre il sangue puro della razza bianca, il male che mi ha fatto e anche le inenarrabili torture del mio cuore.

      – Sí, le tue torture!… Quanto devi aver sofferto nelle terre dell’esilio, mio Romero!

      – Sí, ma per te, Teresita.

      – Ah!… Non mi avevi dimenticata adunque, – diss’ella, sorridendo attraverso le lagrime.

      – No, avevo portato con me l’affetto della Perla di Manilla. Ma quante angosce, Teresita!… Ti avevo sempre dinanzi agli occhi, sai!… Mi pareva anche laggiú, sulle spiagge degli uomini gialli, di udire sempre la tua voce a ripetermi quelle parole da te pronunciate la notte prima del colpo di mano, che doveva dare a noi insorti la capitale «Te o la morte!…». Io anelavo di ritornare qui per rivederti, fosse pure per un solo istante, mi fosse pure costata la vita…

      Romero si era bruscamente interrotto, come se si fosse spaventato di aver detto tanto.

      – Parlo in questo modo, – diss’egli con amarezza, – mentre invece tutto dovrebbe finire fra noi.

      – Romero!… – esclamò Teresita, con un singhiozzo. – Non parlare cosí, gran Dio!…

      – Sí, tutto deve finire, mia Teresita. La patria sta fra noi.

      – La patria!…

      – Sí, perché io domani diverrò uno dei piú implacabili nemici della tua razza e tu non mi potrai piú voler bene.

      – T’inganni, Romero.

      – No, Teresita. Non si può amare un nemico della propria patria, ed io sto per diventarlo. Fra poche ore forse io ucciderò i tuoi fratelli, forse io lotterò contro lo stesso tuo padre.

      – Non è possibile, Romero!… – esclamò la fanciulla con accento straziante. – No, tu non partirai, tu non andrai a lottare nei campi degli insorti, tu non esporrai il tuo corpo ai colpi dei miei compatriotti…

      – È l’indipendenza di queste isole che mi chiama, è la patria.

      – Ma quegli uomini saranno tutti uccisi un giorno, mio Romero, ed io non voglio che tu muoia. Essi credono di vincere la Spagna, essi s’illudono di cacciare i miei compatriotti in mare e s’ingannano. La mia patria è troppo forte e troppo fiera per rinunciare alla lotta.

      – Ma anche l’insurrezione è potente, Teresita, e lotterà finché avrà un solo uomo ed una sola carica di polvere.

      – Ma tu non sei uomo di colore come sono quasi tutti gli insorti. Nelle tue vene scorrono pure delle gocce del sangue dei bianchi, di sangue spagnuolo.

      – È vero ed è per questo che i tuoi compatriotti mi chiamano sdegnosamente meticcio, ed è per questo che tuo padre si frappone fra noi due come se il sangue tagalo di mia madre non fosse pari di quello degli uomini d’Europa. No!… Il meticcio non può amare la donna bianca; è uno schiavo, un lebbroso.

      – Romero! – esclamò Teresita, – non parlare cosí. Che importa se i miei orgogliosi compatriotti ti chiamano meticcio, quando io ti voglio bene?

      – Ma tuo padre?… – chiese Romero che, era in preda ad una viva eccitazione.

      – Tu hai salvato la vita a sua figlia.

      – Ed in compenso sarebbe felice di potermi far fucilare come ribelle, – rispose il meticcio, con amarezza.

      Teresita si era lasciata cadere su di una sedia col viso nascosto fra le mani e piangeva in silenzio, soffocando i singhiozzi che le sollevavano il seno. Il meticcio colle braccia incrociate sul petto, la fronte increspata, s’era messo a passeggiare pel salotto, mentre Manuelita, immobile come una statua di bronzo, vegliava alla porta che metteva sul giardino.

      – Parti?… – chiese ad un tratto la fanciulla, rialzandosi e tergendosi le lagrime.

      – All’alba, – rispose Romero.

      – Sei deciso?…

      – Ho giurato, Teresita.

      – E… non tornerai piú?… – chiese ella, tornando a scoppiare in singhiozzi.

      – Forse un giorno, se la morte mi avrà risparmiato.

      – Ma io non voglio che tu muoia, Romero! – esclamò Teresita posando il bruno capo sul robusto petto di lui.

      – La mia morte sarebbe forse un bene per entrambi. A quale scopo continuare questo infelice affetto, quando non vi è alcuna speranza di realizzare il dolce sogno vagheggiato?… La guerra scaverà fra noi un abisso che non si colmerà piú mai, mia Teresita.

      – E ti rechi?…

      – A difendere Salitran.

      – A Salitran!… – esclamò la fanciulla,


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