Le stragi delle Filipine. Emilio Salgari
si scorgeva sulle pareti, che erano coperte di carta fiorita di Tug e adorne di arazzi di seta color rosso fuoco a grandi disegni rappresentanti mostruosi draghi vomitanti fuoco e lune sorridenti.
Non vi era nessun mobile, nemmeno una semplice sedia di bambú, ma invece negli angoli si vedevano degli enormi fasci d’armi: carabine indiane, fucili a retrocarica di provenienza europea e di varii sistemi, pistole e rivoltelle, sciabole, catane giapponesi taglienti come rasoi, parangs del Mindanao, pugnali, coltellacci, kriss e perfino delle spingarde di grosso calibro.
– Mi attenderai qui, – disse Hang-Tu a Romero.
– Una domanda, prima.
– Parla.
– Dove mi trovo?
– Nella sede delle due società segrete chinesi Giglio d’acqua e Lotus bianco.
– Ho udito parlare di queste potenti società.
– Sai che hanno abbracciata la causa dell’insurrezione?…
– Lo ignoravo.
– Te lo dico ora.
– Ma che cosa vogliono da me?…
– Esse rappresentano in Manilla l’insurrezione.
– Che cosa vuoi concludere?…
– Che devi giurare a loro fedeltà e poi…
– Continua, – disse il meticcio, vedendo che il chinese si era arrestato.
– Poi ti eleggeranno comandante delle forze degli insorti che guerreggiano nella provincia di Cavite.
– Io, capo?…
– Lo si vuole.
– E contro chi dovrò battermi?…
– Lo deciderà la sorte.
Il meticcio rialzò vivamente il capo, che aveva tenuto fino allora chino sul petto, e guardò il chinese, ma questi aveva un aspetto tranquillo e i suoi occhi nulla tradivano.
– Attendimi, – disse finalmente Hang-Tu, che aveva sopportato quell’esame, senza che un muscolo del suo volto giallastro trasalisse.
S’avvicinò ad una porta di legno di tek che si scorgeva all’estremità della sala sotterranea e battè tre colpi su di una lastra di metallo, un gong. Le vibrazioni argentine del disco non erano ancora cessate, che la porta si aprí, richiudendosi tosto, ma senza far rumore, dietro le spalle del chinese.
Romero era rimasto immobile in mezzo la sala, porgendo attento orecchio a vaghi rumori che provenivano dalla parte ove il suo compagno era scomparso. Pareva che dietro la robusta porta di tek, un grande numero di persone bisbigliassero.
Ad intervalli regolari echeggiava come un lontano fragore d’armi, ma subito si spegneva ed il bisbiglio misterioso tosto ricominciava.
Senza dubbio, nei sotterranei della casa, d’aspetto sinistro, si teneva una riunione numerosa, per discutere sui mezzi piú adatti per sopprimere le truppe spagnuole o si tramava qualche audace colpo di mano contro la popolazione bianca di Manilla, per strappare il formidabile baluardo ai dominatori.
Cinque minuti erano appena trascorsi, quando Hang-Tu rientrò dicendo:
– Vieni, Romero: i fratelli ti attendono.
Capitolo III. LE SOCIETÀ SEGRETE DEI CHINESI
Il meticcio, udendo quelle parole, aveva provato, senza sapere il perché, un fremito. Non aveva paura di affiliarsi a quelle misteriose sette importate dalla China e che ora avevano dato le loro ricchezze e le loro forze pel trionfo della libertà delle Filippine; non tremava per le terribili punizioni che infliggono agli uomini, anche lontanamente sospetti della loro fedeltà agli statuti sociali: non temeva le arti segrete di Hang-Tu per strappargli dal cuore la passione per Teresita, pure non si sentiva tranquillo varcando la porta che doveva metterlo in presenza dei membri delle potenti associazioni.
Sentiva vagamente che un pericolo misterioso lo circondava, ma senza sapere quale.
Attraversata la sala, il chinese lo introdusse in un nuovo corridoio che pareva scendesse ancora, poi lo fece passare sotto una strana vôlta formata da otto enormi clave sorrette da otto chinesi, da otto membri dell’associazione.
Subito due altri chinesi s’impadronirono di Romero, gli tolsero la casacca e la camicia gettandogli addosso un manto di seta bianca, ma che lasciavagli scoperta la spalla destra.
Perché la cerimonia dovesse essere completa, avrebbero dovuto sciogliergli la coda, come prescrivevano gli statuti sociali del Giglio d’acqua, del Lotus bianco e del Tien-Tai, ossia della Società del Cielo, della Terra e dell’uomo, come protesta del servaggio dei chinesi contro l’imposizione dei Mantsciuri conquistatori, ma essendo Romero un meticcio, questo particolare fu lasciato da parte avendo i capelli alla moda europea.
Ciò fatto, Hang-Tu introdusse l’amico in un’ampia sala dove si trovavano raccolti un centinaio e piú affiliati , parte chinesi, altri malesi, tagali e meticci, forse i capi piú influenti del partito insurrezionale di Manilla. Erano tutti armati di sciabole, o di catane o di parangs, le cui lame d’acciaio finissimo scintillavano vivamente, sotto la luce d’una mezza dozzina di grandi lanterne di talco.
Hang condusse il meticcio ad una estremità della sala dove sorgeva un piccolo padiglione detto dei Fiori Rossi, perché le tende che l’adornavano erano dipinte a peonie color del sangue, e preso un bacino di porcellana azzurra di Ming, ripieno d’acqua raccolta nel fiume chinese di Siam Ho, spruzzò replicatamente il neofita.
Tosto i cento uomini, che si trovavano colà radunati, si schierarono su due file, ed alzarono le armi formando come una vôlta d’acciaio.
Hang fece passare Romero sotto le lame fiammeggianti e minacciose, poi, giunto nel mezzo, lo fece inginocchiare su di un cuscino di seta cremisi, mentre otto spade si puntavano sulla spalla nuda del nuovo affiliato, facendo uscire alcune gocce di sangue.
– Sono morti i tuoi parenti? – gli chiese Hang, che funzionava da grande maestro.
– No, – rispose il meticcio, con sorpresa.
– Devi giurare che sono morti, – disse il chinese con voce solenne, – cosí vogliono i nostri statuti.
– Lo giuro.
– Ripetilo.
– Lo giuro.
Un lampo di gioia balenò negli occhi obliqui di Hang.
– Tu hai giurato, – gli disse, – questa formula significa che non puoi piú riconoscere alcun legame terrestre e che devi rinunciare a tutto per darti, corpo ed anima, alle nostre società che qui rappresentano l’indipendenza delle Filippine.
Il meticcio, udendo quelle parole, fece atto d’alzarsi, ma le punte delle otto spade l’obbligarono a rimanere in ginocchio. Aveva compreso che quella formula stava per costargli la perdita della fanciulla amata ed aveva pur compreso dove l’aveva tratto l’astuto chinese.
– Hang, – mormorò.
– Per l’indipendenza della patria, – rispose il chinese, che lo aveva ben capito.
Romero chiuse gli occhi e chinò il capo. La libertà della patria gli rubava l’affetto di Teresita.
Un affilato aveva intanto recato un vaso di porcellana color del cielo dopo la pioggia, contenente dell’avarak ed aveva mescolato alla forte bevanda alcune gocce di sangue raccolte sulla spalla del meticcio.
– Bevi, Romero Ruiz, – disse Hang, porgendogli la coppa.
Il neofita la vuotò senza pronunciare una parola. Ormai era in piena balía di quegli uomini; ormai aveva dato il cuore e l’anima all’associazione.
– Romero Ruiz – continuò il chinese rialzandolo, mentre le otto spade venivano ritirate. – Sei nostro ed hai giurato di difendere la libertà delle isole contro i nostri secolari oppressori.
– Sí, – rispose il meticcio, a voce bassa, – ma mi hai schiantata l’anima.
Hang-Tu