Racconti fantastici. Iginio Ugo Tarchetti
che da quel giovine emanasse un fluido ripulsivo, una virtù misteriosa atta ad allontanare da lui tutto ciò che lo circondava.
In quell’istante che io lo stava guardando, essendogli stati gettati alcuni confetti, di cui parecchi si fermarono tra le pieghe del suo mantello che teneva avviluppato sul braccio, un fanciulletto si spiccò dal circolo e gli venne d’appresso quasi per domandarglieli, giacchè egli nè li aveva presi, nè aveva scosso il mantello per farli cadere.
Il giovine lo guardò con affetto, raccolse le confetture, gliele diede; e prima che si allontanasse gli passò una mano tra i capelli con una specie di tenerezza piena di soavità e di malinconia.
Egli aveva posto tanto affetto in quell’atto che, ove anche la natura non lo avesse dotato di un volto così dolce e così simpatico, lo si sarebbe subito giudicato buono e cortese.
È un fatto che il volto è lo specchio dell’anima: non si può indovinare se la natura abbia dato ella stessa un’espressione buona ai buoni, e cattiva ai cattivi; o se la bontà e la malvagità umana possano talmente agire sulle nostre fattezze da modificarle e da imprimervi il loro suggello; ma egli è ben certo che il cuore trasparisce dal viso, anche da quelli la cui bellezza vorrebbe nascondere un animo turpe, o la cui laidezza uno onesto.
Io non mi sarei stancato mai di guardarlo. Non so se le affezioni degli altri uomini sieno governate da questa legge di simpatie e di antipatie improvvise, energiche, inesorabili cui vanno soggette le mie, – per me l’innamorarmi di un uomo o di una donna, il concepire un’inclinazione od un’avversione irresistibile per una creatura qualunque non fu mai opera che di pochi minuti – ma mi ricordo che l’avrei abbracciato lì sulla via, tanto l’espressione del suo volto era affettuosa, tanto quel linguaggio andava dritto al cuore, senza dar campo alla ragione di discuterci sopra.
Non mi mossi di là finchè non se ne mosse egli pure. La festa incominciava a languire, la folla incominciava a diradarsi, e il crepuscolo ad avvolgere tutta quella scena in un penombra grigia e pesante. Eravamo a due passi da un caffè, ed egli vi entrò con aria d’uomo che non sa come passare il suo tempo, che sente il peso delle sue braccia, delle sue gambe, di tutta la sua persona, e che vorrebbe sbarazzarsene e buttarlo là sopra un divano come un fardello noioso ed inutile. Io era nello stesso caso, non aveva che fare, e gli tenni dietro.
Ci sedemmo di faccia, io a guardarlo, egli a leggere. Se non che egli pareva sì poco occupato della sua lettura, che se anche avesse afferrato il giornale pel rovescio credo che non se ne sarebbe avveduto. I suoi occhi erano fissi sulle colonne di quel diario, ma sembravano guardare di dentro piuttostochè di fuori, parevano aver concentrata tutta la loro virtù visiva in sè medesimi, e non occuparsi che di ciò che avveniva nell’animo del giovine.
Io non aveva però avuto che il tempo di fare questa riflessione, allorchè dietro la vetrina della finestra scorsi un nuovo affollarsi di gente e sentii come delle grida femminili; stavo per alzarmi allorchè si aperse la porta del caffè, e ne fu recato dentro un fanciullo svenuto, il quale era stato travolto dalle ruote di una vettura, e ne aveva avuto un braccio spezzato. Rimasi dolorosamente colpito dal riconoscere in quel fanciullo quello stesso che l’incognito aveva accarezzato in mezzo a quel circolo, e a cui aveva regalato i confetti caduti sul suo mantello.
Per un moto istintivo diressi lo sguardo dalla sua parte, e lo scorsi nell’istante che usciva frettolosamente dalla sala. Il suo volto riflesso in quel momento da uno specchio che era di fronte a me, mi parve pallidissimo.
Io abbandonai poco dopo quel caffè in preda a tristi pensieri.
In quella sera stessa doveva aver luogo alla Scala una rappresentazione straordinaria.
L’opera annunciata era la Sonnambula, e il pubblico vi era accorso numeroso ad ascoltare quella musica divina, così piena, così complessa nella sua semplicità, così affettuosa. Si era rappresentata poco prima l’Africana – da Mayerbeer a Bellini la differenza almeno, se non la distanza, era ben grande. Il teatro era illuminato a giorno, la platea era stipata di uditori; e non v’erano altri palchi vuoti da cinque o sei all’infuori, posti tutti nello stesso punto; e in uno dei quali riconobbi con mia grande sorpresa il giovine che aveva veduto poco prima assistendo al corso delle maschere.
Egli era solo e non mi sembrava più nè sì triste, nè sì pensieroso. Vestiva un abito nero molto elegante, ma nulla dimostrava che fosse avvezzo a prendere gran cura della sua persona. Non so se fosse inganno mio, o allucinazione, e che altro, ma egli mi pareva straordinariamente bello, assai più di quanto mi fosse sembrato poche ore prima.
Vi era sul suo volto qualche cosa di luminoso, qualche cosa di quella trasparenza profonda, benchè torbida, benchè appannata, che ha l’alabastro. Egli aveva difatto la stessa pallidezza: a non guardarne gli occhi, a non esaminare la mobilità prodigiosa dei lineamenti, lo si sarebbe detto morto o impietrito. I suoi capelli conservavano ancora quella finezza, quella arrendevolezza, quella lucidità, quell’arricciamento semplice e naturale che hanno i fanciulli; erano di un biondo meraviglioso, e lucevano come fili d’oro al riflesso delle fiamme dei candelabri. Teneva appoggiato il gomito al parapetto, e la guancia sulla mano: la sua testa così inclinata pareva ancora più bella. Egli aveva quella specie di bellezza che hanno le donne, e che ritrae dalla luce un prestigio misterioso e affascinante. A contemplare dalla platea – d’onde non si vedeva il resto della persona – quella sua testa così diafana e così bianca, la si sarebbe creduta appartenere ad un fanciullo, ad una creatura fragile e delicata, forse ad un essere sopranaturale.
Io solo aveva rimarcato cosa che mi pareva avere una strana relazione con ciò che aveva osservato prima al corso delle maschere, voglio dire quel trovarsi egli così isolato in un palco intorno al quale ve n’erano cinque o sei altri vuoti, mentre non era possibile vederne da tutte le altre parti del teatro un solo che non fosse occupato – bisognava aver osservato prima l’accidente del circolo, per trovar causa di meraviglia in questo fatto, – ma gli spettatori erano stati unanimi nell’avvertire la sua bellezza e nell’ammirarla, nè tardai ad accorgermi che le signore sopratutto ne erano state colpite, e gareggiavano nel dirigere i loro cannocchiali verso il suo palco.
Tra quelle di esse che erano riuscite ad attirarsi più facilmente la sua attenzione, vi era una fanciulla che era pure assai bella, ed occupava un palco non molto lontano da quello del giovine. Come avviene a tutte le ragazze veramente ingenue, non di quella ingenuità convenzionale che esse devono ostentare spesso come una parte di commedia, fino a che il marito non le autorizza a rappresentare una parte diversa, ma di quella ingenuità vera che ha la sua radice nella verginità della mente e del cuore, essa ne era rimasta fortemente e subitamente impressionata. Era troppo giovine per sapersi già infingere, e credo di non essere stato io solo ad avvedermi del suo turbamento e della sua agitazione.
Assistetti per un po’ di tempo a quella specie di rapporto misterioso che s’era stabilito tra di loro, mi cacciai come un intruso in quella specie di corrente magnetica che avevano formato i loro sguardi; poi quasi vergognandomi di quello spiare, di quell’ammiccare alla loro felicità, come un pitocco che assista ad un banchetto dalla soglia della stanza, e non possa fruire che del profumo delle salse e delle vivande, mi raccolsi in me stesso, e procurai di rivolgere tutta la mia attenzione allo spettacolo dell’opera.
Dico che me n’era vergognato, ma per me solo. Che se v’è qualche cosa al mondo, d’innanzi alla quale io non sappia nè sogghignare per sprezzo nè piangere per pietà, è la vista di due persone che si amano. Mi sono cacciato spesso di notte sotto i viali pubblici, sotto i boschetti di tigli, appositamente per incontrarvi qualche coppia d’innamorati; e non mi venne mai di passar vicino ad una di esse senza sentirmi compreso da un sentimento di rispetto profondo. Lo confesso, furono quelli i soli istanti della mia vita, in cui i miei simili mi sieno sembrati meno tristi del solito.
Era così riuscito a poco a poco ad occuparmi interamente della rappresentazione, e non aveva più alzato gli occhi verso il palco di quello sconosciuto, allorchè avvedendomi d’un movimento improvviso che si manifestava negli spettatori, e scorgendo la folla addensarsi verso la porta, mi mossi io pure e entrato a stento nel vestibolo, vidi passarvi due signori che reggevano sulle loro braccia una fanciulla svenuta, e la trasportavano in una delle sale del teatro.
Non dirò quale fosse la mia meraviglia nel ravvisare in lei quella stessa fanciulla