Racconti fantastici. Iginio Ugo Tarchetti
abito conoscenza di famiglie che mi reco a visitare ogni tre o quattro anni, come tornassi da un viaggio di circonvoluzione attorno al globo – e più tardi, morto il padre di Silvia, che era delle persone della famiglia quella cui era più specialmente obbligato, ne aveva preso pretesto per troncarle completamente.
Era trascorso così pressochè un anno allorchè, pochi giorni dopo quella singolare comparsa del conte di Sagrezwitcth al caffè Martini, m’imbattei in Davide che non aveva più veduto da quel tempo e che mi parve molto mutato.
Egli mi strinse le mani e mi guardò con espressione triste e turbata – quell’espressione mista di ritegno e di confidenza che hanno coloro i quali vogliono farvi comprendere di avere un segreto doloroso, e di non volervelo confidare.
– Non vi si è più veduto in casa di mia cugina, mi diss’egli, la vostra assenza improvvisa ha prodotto una sorpresa un poco penosa in quella famiglia. Perchè voi sapete che mia zia aveva molta confidenza in voi, e poi… si era presa l’abitudine di vedervi. Se sapeste! sono avvenute nuove sciagure in quella casa; Silvia sta per morire....
– Per morire!
– Sì, la poveretta è travagliata da una malattia di consunzione, una malattia misteriosa che i medici non sanno nè conoscere nè definire più esattamente, ma che hanno dichiarata inguaribile. Essa doveva prender marito....
– Voi forse?
– Non io, diss’egli tristamente, un ricco forestiero a cui mi ha posposto, e pel quale ha concepito una passione di cui non l’avrei mai creduta capace. Essa doveva sposarlo allorchè cadde malata, e queste nozze, ancorchè le si facciano ora come credo che abbiano risolto, non potranno aver più alcuna influenza sulla sua salute. Dubito che la felicità abbia potere di farla vivere più lungamente, ma ad ogni modo sarà almeno felice per quei pochi istanti di vita che le rimangono. Sarà felice anche senza di me, aggiunse egli con amarezza. È facile avvedersi che ella deperisce ogni giorno, e che è impossibile arrestare il processo di questo deperimento così rapido e così misterioso.
– Come! io dissi, ella sposerà dunque quel giovane ancorchè tanto inferma come mi dite? Davide scosse la testa con aria di disapprovazione, e rispose:
– Che volete! Hanno deciso così, anzi è lei stessa che ha deciso. Del resto la sua malattia non è una di quelle che costringono al letto, piuttosto una di quelle di cui diciamo: si muore in piedi. Ma perchè non venite a vederci? Son certo che mia zia ne avrebbe gran piacere, e anche Silvia.
– Ci andate ora?
– Ora.
Mi accompagnai con esso. Potevano essere le dieci di sera quando ponemmo piede in quella casa. La zia di Davide, una buona vecchia – la vecchiaia e l’infanzia si toccano, i vecchi sono sempre buoni come i fanciulli – mi accolse con gioia schietta e cordiale, ma temperata da un poco di rimprovero e di mestizia.
– Ci troverete molto mutati, mi diss’ella. Voi non venite più nella casa di un tempo… La povera Silvia.... – E s’interruppe un istante come per soffermarsi sul pensiero di quella sventura – ma passate in questa stanza, la rivedrete voi stesso, ciò le farà piacere; e vi presenterò anche a mio genero.
Entrammo nella camera vicina.
Silvia era seduta sopra una sedia a bracciuoli, una gran seggiola a rotelle, tutta imbottita e tapezzata di velluto turchino; e presso a lei, sopra una seggiola più bassa il giovane sconosciuto che io aveva veduto al corso e al teatro. Egli aveva avvicinata la sua sedia a quella della fanciulla in modo da poter posare il capo sullo stesso bracciuolo su cui ella posava il braccio; e Silvia aveva inclinata la sua testa su quella del giovane con atto di tenerezza commovente.
Dio! quanto mutata! Appena era possibile riconoscerla. Quella fanciulla che io aveva veduto sì robusta, sì serena, sì vivace non era più che un’ombra del passato, non aveva più che un riflesso pallido e incerto della sua bellezza di un tempo. Non che la sua antica avvenenza fosse del tutto svanita, ma si era alterata; era ora un’avvenenza diversa, era la bellezza di un fiore sbocciato all’ombra, di un frutto maturato precocemente perchè roso dal tarlo. Il volto del giovine era pallido, ma quello di Silvia era bianco, più bianco dell’abito lungo e vaporoso che avvolgeva la sua persona, se non che gli zigomi delle guancie un po’ asciutte erano leggermente rosati, ma senza sfumatura come se vi fossero state sovrapposte due foglie di rosa già scolorite. I suoi capelli avevano quel lucido morto che hanno ordinariamente i capelli degli infermi, e pendevano, non sciolti ma scomposti, sulla testa del giovine che la stava guardando con espressione di pietà inesprimibile.
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