Racconti fantastici. Iginio Ugo Tarchetti

Racconti fantastici - Iginio Ugo Tarchetti


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come tutti gli altri; volendo è affabile e gentiluomo, vi è nulla a che opporre; ma parmi cecità il negare cosa che la maggior parte degli uomini ha ammesso, il negare perchè non si comprende.

      – Noi non neghiamo, gli diss’io, dubitiamo. Ma, a proposito, avete dimenticato di dirci dove l’avete incontrato la quarta volta.

      – Ah! riprese egli un poco rassicurato dalle mie parole. Quest’ultimo incontro ha una data molto recente. Io lo vidi due mesi or sono a Londra, allorchè vi bruciò il teatro della regina. Seppi anzi che egli aveva intenzione di passare presto in Italia, e se egli ha scelto questa stagione per venirvi, vi è nulla di più probabile che le feste del carnovale lo abbiano condotto a Milano.

      – A Milano!

      – Sì, e desidererei che lo vedeste. Non so dirvi il motivo di questo desiderio, pure mi sembra che al solo vederlo potreste comprendere il perchè di tante cose che io non posso spiegarvi; mi pare che non potreste più dubitare della verità della mia asserzione. – Osservereste, riprese egli dopo qualche istante, una cosa assai rimarchevole nel suo abbigliamento, voglio dire la freschezza e la finezza de’ suoi guanti che egli suole mutare più volte in un sol giorno, per modo che nessuno l’ha mai veduto a mani scoperte; e un’altra singolarità non meno notevole nella sua persona, cioè la potenza del suo sguardo, un non so che di magnetico e di inesplicabile che vi è in lui, e che vi sforza quasi a guardarlo e a salutarlo vostro malgrado.

      – A salutarlo! esclamammo noi sorridendo.

      – Sì, a salutarlo.

      – Oh! vorrei vederlo!

      – Davvero!

      – Vorremmo vederlo!

      In quell’istante – potevano essere le due dopo mezzanotte – si aperse l’uscio del caffè, e un uomo pingue e tarchiato entrò nella sala. Al ritratto che ci era stato delineato poco prima, al berretto di pelo, alle mani calzate da guanti freschissimi, all’espressione singolare del suo volto, noi non tardammo a riconoscere in lui l’uomo di cui si era parlato. Allora, o fosse meraviglia, o fosse confusione di idee prodotta da quella sorpresa, ci alzammo unanimemente a salutarlo. Egli portò la mano al berretto con atto di cortesia schietto ma moderato, e si sedette all’altra estremità della stanza.

      Io non posso esprimere la confusione, la meraviglia, il dispetto che s’impadronì di noi in quell’istante. Comprendevamo di esserci mostrati deboli verso di lui, verso di noi stessi, di esserci mostrati fors’anche ridicoli. Ciascuno era rimasto assorto in questo pensiero, nè aveva osato riprendere la parola. Il silenzio aumentava la nostra confusione.

      L’incognito chiese una tazza di punch che bevve avidamente. Gettò sulla guantiera uno scudo d’argento, e respinse al cameriere il residuo del prezzo della sua bibita. Il cameriere nell’allontanarsi inciampò del piede nell’estremità della sua sedia e cadde; la guantiera essendogli scivolata di mano, percosse del volto sui cocci della tazza che si era spezzata, e si ferì in modo che il viso gli si coperse in un istante di sangue.

      A quella vista ci alzammo tutti come mossi da una sola volontà, e uscimmo a precipizio dalla sala.

* * *

      Nei primi giorni della mia residenza a Milano aveva dovuto quasi mio malgrado, stringere conoscenza con una famiglia, la quale per mediazione di amici, mi aveva reso anni prima alcuni servigii assai utili. Abitava essa una di quelle casupole grigie e isolate che fiancheggiano il naviglio dalla parte occidentale della città – una vecchia casupola a due piani che il tetto sembrava comprimere e schiacciare l’uno sull’altro come una cappa pesante di piombo, tanto erano bassi ed angusti. Correvanle tutto all’intorno alcuni assiti neri e tarlati su cui si arrampicavano delle zucche nane e dei convolvoli malati di clorosi.

      Un setificio vicino l’avvolgeva notte e giorno in un’atmosfera di fumo, l’umido del naviglio aveva prodotto qua e là alcune rifioriture nell’intonaco esterno delle pareti, e le aveva rivestite di muffa e di piccole pianticelle di acetosa; nubi di moscherini entravano per la bocca e pel naso al primo affacciarsi alla finestra; e il cicaleccio, e lo sbattere, e il canticchiare delle lavandaie che risciacquavano, e sciorinavano su quegli assiti e su quelle zucche produceva da mattina a sera un baccano continuato e assordante.

      Non vi sono forse a Milano cento persone le quali abitino nel centro della città, e conoscano con esattezza quella parte de’ suoi dintorni. Milano è la miniatura esatta di una gran città; ha in piccole proporzioni tutto ciò che è proprio delle grandi capitali. Quel lembo estremo di case che costeggia il naviglio da Porta Nuova a Porta Ticinese è ciò che è la Marinella a Napoli, ciò che è il Temple a Parigi, ciò che è Seven-dials a Londra.

      Avverso, mezzo per istinto, mezzo per progetto, a conoscere nuove cose e nuove persone, io ho sempre considerato una conoscenza nuova come un peso nuovo aggiunto alla mia vita – non aveva avuto però a dolermi di quella. Era una famiglia di onesti negozianti arrichitasi mediocremente nel commercio, e venuta ad alloggiare in quella casa solitaria per godervi in pace la piccola fortuna che aveva raggranellato.

      Silvia l’unica erede di quella fortuna, era una delle più splendide bellezze che io avessi mai veduto, e non aveva che diciasette anni allorchè io la conobbi. Non era una di quelle beltà fine e delicate che preferiamo spesso alle beltà robuste – l’amore ha fatto da alcuni anni un gran passo verso lo spiritualismo – ma la sua bellezza, benchè ineffabilmente serena benchè fiorente di tutti i vezzi della gioventù e della salute era temperata da qualche cosa di gentile e di pensieroso che non hanno ordinariamente le bellezze di questo genere. Nè io potrei dirne di più; ciascuno di noi porta in sè un ideale diverso di bellezza, e quando si è detto d’una donna: è leggiadra, si è detto tutto ciò che si può dirne. Un pittore, uno scultore potrebbero darne nella loro arte un immagine meno incompleta, la letteratura non lo può – le altre arti parlano ai sensi, la letteratura alle idee. Ho veduto due incisioni di Jubert, due angeli simboleggiati da due giovinette nude, paffute, rosate, per ciò che è colorito e pienezza di forme, due vere popolane; eppure l’artista aveva saputo dare a quei volti tanta spiritualità che incantavano e non si potevano guardare senza restarne rapiti. Nelle madonne del Carraccio ho osservato lo stesso contrasto. La bellezza di Silvia era di questo genere, risolveva in certo modo lo stesso problema – la spiritualità della materia.

      Essa era una di quelle anime semplici, pie, modeste che non sanno aver mai alcun rancore colla vita, ricche di quella cara fatuità che la natura ha dispensato con tanta larghezza alla donna, felici nell’ordine e nella quiete che la loro semplicità medesima ha creato intorno ad esse, e che l’assenza delle loro passioni non può mai turbare.

      Durante le mie prime visite, aveva conosciuto in quella famiglia un cugino di Silvia, certo Davide, giovine maturo e positivo che era giunto da poco a Milano, e che era stato un tempo interessato negli affari commerciali di quella casa. Pericoloso come tutti i cugini – non so se parimenti fortunato – non m’era stato difficile accorgermi che egli amoreggiava la fanciulla. Come tutti gli altri uomini non era nè bello, nè brutto – la bellezza dell’uomo è una cifra di cui non si è ancora trovato il valore, anche per la maggior parte delle donne non è che una cosa insignificante; noi cerchiamo nell’uomo un carattere, le donne vi cercano semplicemente un uomo – sono esse che hanno creato quel noto aforismo: un uomo è sempre bello.

      Io confesserò che quella scoperta era stata uno dei motivi essenziali che m’avevano indotto a trascurare la conoscenza di quella famiglia. Io non aveva posto occhio nè sulla dote, nè sulla bellezza di Silvia, ma aveva compreso che l’amore di Davide che io credeva corrisposto mi poneva d’innanzi a lui in una certa quale inferiorità di cui mi sentiva umiliato. In ogni uomo che avvicina una donna si suppone il desiderio di corteggiarla; in due uomini che l’avvicinano a un tempo si suppone quasi il dovere di lottare per ottenerne la preferenza. Almeno la società ed il cuore umano hanno ancora di tali pregiudizii: abbiamo mutato vocaboli, ma non abbiamo mutato cose e passioni: presso ogni circolo di donne vi è ancora una piccola corte d’amore intima dove si combatte ad armi cortesi per l’affetto di una dama preferita. E poi io mi sono sempre sentito sì meschino dinnanzi ad un uomo positivo, che non mi bastò mai l’animo di impegnarmi in una lotta qualunque con un nemico siffatto. Che cosa è egli un dotto, un letterato, un sapiente al confronto di ciò che noi chiamiamo un uomo di mondo?


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