Top. Albertazzi Adolfo

Top - Albertazzi Adolfo


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Aldo.

      – E se ci restan, nella corda, non scappan più. Vedrai!

      Ma costruire un archetto non era agevole come legare un fascio di stipa.

      Mario piegò ad arco un ramoscello e lo tese per bene con uno spago doppio a scorsoio. Se non che non sapeva ancora la giusta distanza dei nodi, nè trattener l'uno col piòlo, che, quando la vittima capiterebbe su la corda, cadrebbe, e l'arco scatterebbe serrando e stringendo le povere gambe fra l'altro nodo e la cocca. Uno spasimo atroce.

      – Fa presto! – Aldo sollecitava, ansioso del giuoco. – Dove ce n'è, delle buferle, adesso?

      – Nell'acaciaia del Palazzaccio.

      E prova e riprova, finalmente la macchina sembrò in ordine.

      Mentre avanzavano per il sentiero tra le macchie il piccolo si accorse che il giorno mutava luce.

      – Vien tempo da piovere.

      – Lascia! In caso che piova andiamo a ricovero nella capanna del vignarolo, lassù. Io non ho paura di niente.

***

      Ecco. Sfogliata la cima a un'acacia, posato l'archetto fra una rama e l'altra, non c'era più che da attendere con pazienza, zitti e queti. Passeri ne giungevano, d'intorno, ma parevano avvisarsi a vicenda dell'insidia: buferle, nessuna. E Aldo non poteva star fermo e tacere. Deluso, cominciò a insistere per tornar a casa.

      – Non senti che tuona?

      Il temporale rombava da lungi e già ne pesava, nell'afa bassa, la minaccia. Quando uno strano grido, come d'una voce troppo alta emessa da una gola troppo stretta, come d'un richiamo doloroso e selvaggio, sorse lì, da loro.

      – Un pavone!

      – Un pavone di quelli del Palazzaccio. Cercherà la pavona e i pavoncini, per ammazzarli – disse Mario.

      E lo videro. Nonostante l'impedimento della coda oltrepassava svelto fra tronchi e sterpi. Addosso! Forandosi le mani e le guance nell'inseguirlo, lo spinsero contro un cespuglio.

      – Càvagli le penne! – incitava il piccolo. – Ne voglio una!

      Infatti come la bestia ebbe nascosto il capo nel cespuglio e pensandosi non più vista non si mosse più, Mario potè strapparle una, due, tre penne delle più belle.

      E nel cielo ottenebrato proruppero i lampi.

      Allora i ragazzi fuggirono a ricoverarsi nella capanna.

***

      Il capannotto del vignarolo era a sommo della riva, appoggiato a una quercia e contesto di frasche.

      Vi entrarono felici. Essere al coperto, al sicuro, là sotto, come fossero sol lor due al mondo, mentre la bufera si scatenava! Il tuono ora scuoteva cielo e terra.

      – È il diavolo che va in carrozza con sua moglie. – Mario rideva; non aveva paura.

      Ma Aldo non rideva più. In fondo, dove il riparo era più saldo, sedè accosto al pedale della quercia e si coperse il viso con le braccia. E a un tratto, dal cielo squarciato piombò la grandine col fracasso della ghiaia scaricata dalle birocce; con un guizzo di luce abbacinante una folgore cadde da presso. I chicchi grossi quanto le nocciole fendevano il fogliame e il frascame dell'albero; alcuni penetravano di colpo nel rifugio.

      – Mamma! – invocò il piccolo.

      – Non aver paura! – ammonì il fratello. – Ci son io; e ti copro con la paglia. Tieni tu le penne.

      Gli porse, gli mise nella mano le penne del pavone, e tornò verso l'entrata dov'era un po' di paglia, in mucchio. E si chinava per raccoglierla, per difendere con essa, dalla tempesta, il fratellino che chiamava la madre e piangeva; e in quell'istante si sentì investir tutto, rapire da una fiammata. E non capì più nulla.

***

      Quando rinvenne, Mario vide che il sole splendeva. Ma aveva l'impressione di non poter più muoversi. Con un terrore folle si sforzò ad alzarsi in piedi, e alzatosi gli parve di sentir il sangue rifluire per ogni vena e d'essere leggero leggero.

      – Andiamo via! corriamo a casa! – gridò volto ad Aldo.

      Aldo non si mosse. Teneva il capo a terra, contro il braccio sinistro; tendeva l'altro braccio stringendo in mano le penne del pavone.

      E Mario gli si avvicinò, lo chiamò più forte.

      Non rispose.

      Tendeva il braccio destro, irrigidito, quasi volesse rendere al fratello le penne del pavone che il fulmine gli aveva lasciate intatte nella mano.

      LA FIUMANA

      Che gli asini camminando più o meno piano per la strada maestra si provino a prendere ogni viottola che scorgono di qua e di là, si capisce. La strada larga e bianca, precorrente senza limite visibile, suscita in loro l'idea e il panico dell'infinito; e poichè sanno per esperienza come da colui che trasportano e che li guida e bastona ci sia da aspettarsele tutte – e non sarebbe da meravigliare neppur il proposito, in lui, d'andare all'infinito – essi dalle viottole laterali han l'illusione o la conoscenza o la speranza di un termine prossimo, e tentano rivolgersi a quello.

      Più difficile è spiegare perchè anche l'asino bennato oppugni a voltar indietro pur nella più larga e più piana strada. Ecco. Il prudente auriga tira dalla parte destra fin quasi al limite del fosso, indi tira a sinistra con tanta energia che la bestia è costretta a piegar contro la stanga il collo, la testa, la bocca aperta dallo spostamento del morso, e, per esprimer meglio il suo volere, il padrone rialza e riabbassa in fretta il randello, sì che la battuta groppa si addossa, rintronando e dolorando all'altra stanga – e, nossignori, non cede; piuttosto che cedere l'asino va inesorabilmente nel fosso di sinistra col biroccino e chi c'è sopra. Perchè? Forse per amor proprio? punto di onore? dignità personale? In tal caso bisognerebbe supporre a questa ostinazione, a cocciutaggine così pericolosa, un ragionamento degno d'un uomo di carattere quale ce n'è pochi, specie al giorno d'oggi. – Ah tu che mi sfrutti mi hai dunque attaccato al biroccino non per bisogno, ma – poichè vuoi tornar indietro – solo con l'intenzione di farmi faticare e di bussarmi? Ebbene, no! neanche se io debba tornare alla dolce stalla, io non volto! Preferisco pungermi alla siepe, rompermi una gamba, fiaccarmi l'osso del collo nel baratro. Non volto: no, no e no!

      E che tale o simile ragionamento non fosse da escludere lo dimostrerebbe un fatto: che laggiù, quando sia rimasto in piedi o risorga, l'asino si mette subito a brucar l'erba della sponda. L'ostinazione cieca non gli permetterebbe di vederla, l'erba: la stizza invece, che nelle persone intelligenti non toglie il lume degli occhi e passa presto – appena hanno avuto sodisfazione – , gli lascia dire tra sè: – Adesso che l'ho vinta io, sono contento. Mangiamo!

      Ma quand'anche questa presunzione intellettiva nei ciuchi fosse esagerata, l'ostinazione loro sarebbe sempre più agevole da intendere, psicologicamente, che l'ostinazione dei cavalli.

***

      Qualche anno fa venne di moda il negar l'intelligenza al cavallo, o – nella reazione ad ogni ammirazione del passato – per contrasto al Buffon e all'Alfieri, o per consenso al grande – allora – e nuovo Mirbeau, o per incredulità delle esperienze di Elberfeld, ove dicevano che un certo cavallino eseguiva esercizi d'aritmetica coi piedi, i quali oggi nemmeno usan più i poeti agli esercizi della prosodia. E si chiamava stupido il «più nobile compagno dell'uomo» perchè è ombroso e perchè ha lo sguardo velato: come se l'adombrare non potesse indicar il prevalere della facoltà fantastica su la fredda ragione, che è indizio di genialità, e come se non ci fossero stati grandi uomini, scienziati o poeti, non solo con velato sguardo, ma con occhi morti del tutto.

      Un fenomeno però della razza equina varrebbe meglio a giustificarne i detrattori: il restio. Quale maggiore stolidezza, se volontaria? Fermarsi a un tratto senza perchè manifesto; resistere a ogni stimolo, a ogni esortazione più carezzevole, a ogni più duro castigo: lì, immoto con la testa china, proprio a mo' degli asini malnati, e talvolta con il di dietro alzato a springar calci in ricambio delle frustate, dei pugni su la testa e dei calci nella pancia che l'uomo, per diritto di ragione e di padronanza, elargisce all'animale, indarno.

      Tale pervicacia, a udir il contadino o il birocciaio


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