In faccia al destino. Albertazzi Adolfo

In faccia al destino - Albertazzi Adolfo


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rivolgerci al cavaliere. Francamente, tra i due, preferiamo ancora lei!

      Io tacevo con un sorriso incerto.

      – Non capite che Sivori non ne ha voglia? – esclamò Ortensia dopo avermi fissato a lungo, in silenzio.

      – Si annoierà più a restare in casa – ribattevan le altre.

      – No, no! Si vede! È inutile: non-ne-ha-voglia!

      Pronunciando in cadenza l'ultima affermazione Ortensia manifestava malcontento e nello stesso tempo minaccia di abbandonarmi alla mia svogliatezza.

      Io le dissi:

      – A quel che pare, tu sei disposta a andar senza di me. Mi vuoi o non mi vuoi?

      Rispose forte e soltanto:

      – Sì!

      – E io ci verrò!

      Il dì dopo andammo dunque noi sette – io, i tre giovani e le tre ragazze – a far colazione alle Grotte.

      Se durante quella gita io avessi potuto o saputo conoscere a dentro l'animo d'alcuni della compagnia; se avessi potuto scorgere i motivi reconditi di atti in apparenza quasi involontari e di parole in apparenza leggere; se quel giorno avessi pensato un po' meno a me stesso, quanto dolore sarebbe stato evitato?

      Per andare da villa Moser alle Grotte si teneva prima il sentiero che guidava al piccolo oratorio del Crocifisso; ivi si passava per il ponte di legno e si prendeva la strada, la quale or costeggia la destra del fiume, ora se ne allontana; ora aperta, ora chiusa in lembi di bosco o solo ombreggiata da noci e da querce, finchè si arriva all'aspra montagna che la via mulattiera assale fra i castagni frondosi e bistorti.

      L'ingegnere s'accompagnò subito a me, ed Anna, chiassosa fin nella veste rossa, fu costretta a correre innanzi con Ortensia e con Pieruccio, la vittima, schiamazzando. Dietro andavano Guido e Marcella nella lor piena felicità. Roveni, fatti pochi passi, respirò ampiamente come chi si solleva dalle spalle un peso enorme e come dicesse: «il mondo è mio», disse:

      – Questa giornata di svago mi voleva e me la prendo! Moser è rimasto lui alla fabbrica, oggi; ma senza bisogno: ho predisposto tutto io stanotte.

      Era la prima volta che discorrevamo insieme liberamente noi due soli, e colsi l'occasione per dirgli:

      – Moser prevede che lei, che gli è così utile, lo abbandonerà.

      Senza guardarmi l'ingegnere mormorò:

      – Vedremo.

      – … Però le dà ragione. Lei può pretendere migliore impiego.

      – Davvero? Moser non me ne vorrà male, se mi converrà lasciarlo?

      Era grato anche a me, che l'accertavo di no.

      Io pensavo intanto: «Ecco un uomo! Abbastanza di sentimento; ma finchè non gliene venga danno». Pensai pure: «Se Ortensia avesse qualche anno di più…» Ma guardando il giovane respinsi subito quel pensiero. «Una moglie a costui sarebbe d'impaccio. Per andar lontano, vuol essere libero. Costui è un uomo!»

      Egli proseguiva:

      – Certo, Moser non potrà dire che gli do il calcio dell'asino. Avrei potuto andarmene già l'anno scorso. È vero che… Basta! La vita è lotta. Io, dottore, ho lottato sempre dai quindici anni in poi.

      Era rimasto orfano giovanetto; a prezzo di stenti e di fatiche aveva compiuti gli studi… Poi ripetè che a Moser egli era tanto affezionato…

      Avrei dovuto supporre qualche cosa di dubbio e di segreto nelle sue parole, e in quella reticenza: «È vero che…», per cui si era trattenuto da una confidenza inopportuna?

      Non so. Anche ora rivedendo Roveni nella mia memoria qual egli era quel giorno mentre mi camminava accanto – più alto e più robusto di me; energico in tutta la persona che indossava il solito vestito bigio, col cappellone a larga tesa; i grossi baffi arditamente eretti, lo sguardo sicuro come il passo – anche ora mi sembra naturale che allora io soggiacessi alla simpatia di quell'uomo. Notai, sì, ch'egli mi guardava di rado e che tendeva gli occhi innanzi a sè; ma perciò vedevo in lui l'abitudine di chi guarda a un suo scopo, lontano. Notai pure che nella sua fisionomia prevalevano la volontà fredda e l'ambizione; ma la stessa durezza di lineamenti non aveva per me nulla di oscuro.

      Proseguiva:

      – Ho lottato sempre e non dispero di vincere. – Aggiunse: – Lei è di quelli che credono vile la conquista del denaro? Non credono che il denaro, la ricchezza sia un elemento di felicità?

      – Felicità è possedere la forza di volontà che lei dimostra – risposi.

      – La forza di volontà non basta! – ripigliò il giovane. – Bisogna ben determinare il campo d'azione; saper limitarlo secondo le proprie forze; segnarvi la via diritta da percorrere, e correre, correre, correre! La vita moderna è una corsa. Ma non basta. Vede? Moser corre. Però dissipa qua e là le sue forze: architetto, costruttore, appaltatore e fabbricatore di laterizi. Troppo! Ma criticare è facile. Io riuscirò dove voglio?

      Interrogava l'avvenire.

      – Lei riuscirà – dissi con amarezza, pensando a me stesso più che a Moser, quantunque la parte del discorso che gli si riferiva avrebbe dovuto raccogliere la mia attenzione. – Lei sa misurare gli ostacoli e li abbatterà.

      – Non basta! non basta! La vita moderna pretende che abbattiamo anche intorno a noi, non solo davanti a noi! I concorrenti bisogna abbattere che mirano al nostro scopo e al nostro posto, e son tanti! Ma non è facile. Mai come in questi tempi bisognò armarsi di prudenza per colpire poi a spada tratta…

      Mentre Roveni diceva così io ripensavo a me; già mi sentivo ricadere in me stesso.

      E gli altri, tutti insieme, ci affrontarono rimproverando la gravità dei nostri discorsi e la lentezza dei nostri passi.

      – Oggi non rideremo come l'anno scorso, quando andammo a Monfalco – disse Ortensia.

      Presero a raccontarmi della gita dell'anno innanzi, ch'era stata interrotta da un nebbione formidabile.

      – Dovemmo pernottare in una capanna.

      – Merito tuo e del babbo, che vi ostinaste a salire – disse Marcella a Ortensia.

      Pieruccio affermò:

      – Ma io e Roveni ci arrivammo, alla vetta!

      – Non è vero! – gridò Guido. – Vi nascondeste nella nebbia, vicino alla capanna, per paura di perdervi.

      – Ci arrivammo!

      – Storie!

      Roveni taceva quasi non valesse la pena di sostenere la verità di così piccola impresa.

      – Oh che notte, là dentro! Che notte! – ripeteva Marcella. Raccontava Ortensia:

      – Immagini che fummo costretti a gettarci nella paglia per riposare un poco. Che freddo!.. Io e la signora Fulgosi avevamo uno scialle in due! Bene: stavamo tutti zitti, e il cavaliere sospirò e si lamentò che non ci fosse nemmeno un po' di tè. Allora chi si mise a sospirare perchè non aveva la cuffia da notte; chi brontolava perchè non aveva le pantofole; chi voleva l'acqua di Vichy. Anna piangeva perchè non le portavano due guanciali!

      Ma Anna, sogguardando a Roveni come per un richiamo a un loro particolare ricordo:

      – Nemmeno l'ingegnere chiuse occhio in tutta notte.

      L'ingegner Roveni sorrise appena e disse: – Lei non dovrebbe saperlo se io chiusi o non chiusi gli occhi. Eravamo al buio.

      Ortensia sola rideva ingenuamente e con più vivacità di ogni altro, perchè aveva più viva degli altri nella memoria la rappresentazione del fatto e la comicità delle persone. Però quella sua giocondità, alla quale io non partecipavo, e quelle rimembranze estranee alla mia memoria aumentavano il mio turbamento. Avevo nell'anima il crollo di una grande speranza. Ora, come l'anno prima nell'altra gita, Ortensia era lontana da me, lieta senza di me.

      Correva innanzi, adesso, a chiamare il cane


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