In faccia al destino. Albertazzi Adolfo

In faccia al destino - Albertazzi Adolfo


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Ortensia, per parte sua, col suo carattere, mi persuadeva che quando pur avesse avuto cento adoratori attorno, e uno più esperto dell'altro, sarebbe stata ugualmente lontana dal pericolo di languir di passione. Chi pensa a sè stesso, perchè ama o è in attesa di amare, non ha di quelle impressioni improvvise, di quei rapidi entusiasmi per la vita esterna che aveva lei.

      In ciò rassomigliava alla madre quand'era giovane; ma mentre in Eugenia l'ammirazione dei fenomeni naturali era temperata dall'affetto raccolto nel marito e nella famiglia, in Ortensia la stessa ammirazione prorompeva giù spontanea, più vivace, più grande; immediata. Ecco forse perchè all'arte della poesia, che domanda, a comprenderla e a gustarla, studio e riflessione, essa preferiva la pittura e la musica.

      Con Ortensia non si facevan molti passi, non si stava un po' fuor di casa, senza udirla ripetere: – Guardi! che bellezza! Stupendo, è vero? – E mi chiamava spesso a voce alta: – Sivori! venga a vedere! corra!

      Se non che per godere del tutto la libertà delle sue giornate, Ortensia non avrebbe dovuto aver nulla da fare in casa. E, pur troppo, la vecchia cameriera veniva in cerca di lei con gravi incombenze di Marcella o della madre.

      Uf! che pazienza! Di solito scappava in casa di corsa per trarsi d'impaccio al più presto possibile; ma talvolta rispondeva:

      – Sì, sì, ho capito! Subito! Vengo subito! – e allora a rivederci, Marcella; o arrivederci, mamma!

      Quando poi non poteva esimersi dal cucir qualche cosa, o dal rammendare il bucato, si addossava in un giorno il lavoro di una settimana. In quel giorno di clausura, che manteneva con fermezza eroica, io la vedevo di giù, dal giardino, seder presso una finestra, contro al fondo scuro della camera.

      A capo un po' chino, con movimento ritmico, alzava il braccio e tendeva il filo a ogni punto: ne scorgevo ad ogni volta la mano bianca; e come di tratto in tratto elevava il capo a guardar fuori, al cielo, i suoi occhi mi parevano più luminosi e profondi.

      Ma ottenere di cotesti miracoli era impossibile per imposizione.

      Aveva la ribellione nel sangue; al punto che si ribellava anche a Sivori.

      Una mattina ricorsero a me, l'una dopo l'altra, Marcella, la cameriera, Eugenia.

      – Sa dove sia Ortensia? – ; dove sia la signorina? – ; dove sia la cervellina?

      No, neppur Sivori lo sapeva. L'avrebbe saputo Mino; ma Mino appunto era stato prescelto da lei ad accompagnarla nel bosco, di là dall'antico convento, per raccogliervi bulbi di ciclami.

      Senza di me! Quando tornò a casa, la rimproverai con acerbezza; come avesse commessa una colpa grave davvero. Essa però prese i rimproveri allegramente.

      – Perchè non ho chiamato lei, invece di Mino? Perchè?.. per farle, dopo, una improvvisata! Non va bene? Una scusa che non va? Allora perchè…: per evitare una sgridata! Raccoglier cipolle di ciclami nel bosco… Orrore! Ma no: neppur questo «perchè» la soddisfa? Ecco dunque la verità: m'è parso un passatempo non da uomo così… burbero!

      Quindi a me non rimase da far di meglio che star a vederla a piantar i bulbi nell'aiuola, solo sgridandola che s'interrava le mani, e lodando Mino, il quale, più savio, scavava con un paletto.

      – Che m'importa delle mani? – ella disse. – Vedrà, vedrà che ciclamini! Io li preferisco a tutti i fiori… E lei? Qual è il fiore che le piace di più? Dica! Voglio saperlo!

      E Mino anche lui: – Di' dunque, Sivori!

      – Indovinate – risposi, ripensando al tempo che mi piacevano i fiori.

      Mino esclamò, pronto:

      – Le freddoline!

      Ma Ortensia:

      – I fiordalisi? Di giugno, quando il frumento è alto e giallo, i papaveri e i fiordalisi, là in mezzo, non son belli forse?

      Non era il fiordaliso che io ammiravo di più, un tempo…

      – La rosa! – gridò Mino con l'entusiasmo di una scoperta indubitabile.

      Via! Ortensia non poteva ammettere che il fiore che più piace a tutti, più piacesse a me.

      – La rosa thea?

      Dissi:

      – Anche le thea hanno le spine…

      Con alacre pensiero, cogliendo le immagini più vive che le venivano alla mente, Ortensia proseguì:

      – La camelia? È stupida! Il mughetto? Sì, è grazioso… ma poi! I tulipani? l'ireos? No, no, non credo. Il tuberoso? Niente di straordinario! Le viole? Peggio!; le viole mammole le han fatte diventar noiose a scuola, con la storia della modestia; le viole del pensiero io non le posso soffrire! Dopo l'ortensia, la viola del pensiero è il fiore più antipatico per me. Ortensia!: potevano ben mettermi un altro nome!

      – Il geranio è bello – disse Mino.

      – Sta zitto, tu! L'orchidea?.. – continuava l'altra. – Ma lo dica, una volta! Il garofano?

      Assentii.

      Mino gridò: – È brutto!

      Ma Ortensia riflettè un istante; e poscia:

      – È vero; è molto bello il garofano!

      Quanti anni eran passati da quando il mondo a me pareva bello anche nei fiori, e il garofano il più bel fiore?

      Rividi nella memoria il mio paese nativo, ai dì di festa; mia madre… Era molto bello il garofano rosso; il fiore del popolo: fiore della forza e della libertà; fiore dell'idea e fiore del sangue.

      – Prendi! – disse Mino portandomene uno, di corsa.

      Ecco… Il calice capace e alto, merlato, ben munito al fondo; i petali copiosi, con quelle brevi frange marginali che sembrano moltiplicarli; il calamo così sottile e lungo, che ai nodi non si piega ma si tronca – frangar non flectar – ; le foglioline del gambo esili ma salde, forti, affilate come lame; e quel colore ardente fra l'umile verde opalino della pianta, e lo sboccio impetuoso fuori dell'intricato cesto, gli danno una apparenza di bellezza audace, di stranezza semplice, di letizia rude, di vigoria nobile e selvaggia.

      Al mio paese, tornando dai vesperi, i giovani portano il garofano all'orecchio, quale segno di conquista; e le ragazze non se ne adornano esse, ma li coltivano con gelosia in una pentola crinata, che adorna la finestra della loro camera, e se ne valgono a prove d'amore; tentazioni, sfide, promesse, premi e pegni d'amore.

      Ma se ci son fiori che appaiono più belli quando sono sbocciati appena appena, o in prima fioritura, il garofano non è bello che nella virilità. Prima, allorchè gl'innumerevoli petali, vivi e freschi, fanno forza al calice che li costringe a non espandersi e nascondono le antere e i pistilli, come per un pudore di adolescenza, allora è di una timidezza senza grazia, di una robustezza troppo impacciata e quasi stenta. Ma quando è maturo e aperto, quando nella festa della sua vita fende il calice, prorompe con vigore esuberante, e i petali, per la fenditura, in basso, formano un bitorzolo bianco come son bianchi gli organi generativi non più nascosti, e in alto i petali sorgono pieni di colore e di sangue, e quelli esterni si chinano e soggiacciono quasi alla stanchezza di una fatica, grande e gioconda; quando da tutta quell'intima complessione tenera e viva sgorga il profumo intenso che non cesserà nella morte, oh allora è mirabile il fiore del desiderio ardente, dell'amore cupido e della voluttà!

      … Ebbene, da quel giorno, spesso Ortensia si mise, insieme, due o tre garofani sul petto; e da quel giorno il garofano perdè ai miei occhi ogni espressione sensuale, e mi parve più bello.

X

      – Ho promesso e mantengo! – proclamò l'ingegner Roveni. – Domani si va alle Grotte.

      Lo ricompensò un clamore di grida gioiose; e subito le ragazze furono intorno a me per costringermi ad andar con loro.

      Anna Melvi urlava:

      – Chi fa l'istanza? chi ci è più interessata? – e sospingeva Marcella, timida e ridente in quel suo modo per cui stringeva un po' le ciglia e velava con le palpebre gli occhi soavi.

      Inanimita,


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