La montanara. Barrili Anton Giulio

La montanara - Barrili Anton Giulio


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delle società segrete, i cui affiliati non si conoscevano tutti fra di loro. La catena era lunga, ma ognuno sapeva del suo vicino di destra e di sinistra, e tutti gli altri anelli si perdevano nell'ombra; nè importava cercare di più, sapendosi spalleggiati e immaginando anche un ordinamento più forte, una catena più lunga e una rete più fitta.

      Comunque fosse riescito il suo bravo Giuseppe a fargli pervenire la lettera, egli era un uomo prezioso. Quali notizie gli avrebbe recate la lettera? Gino si dispose a leggere con uno strano batticuore.

      – Ecco, – diceva egli tra sè, – qui forse c'è la spiegazione di certe cose che mi hanno fatto un senso così triste, buttate là dal signor commissario. Il mio tormentatore non lo immaginava di certo che accanto al suo veleno, distillato con tanta voluttà, venisse così pronto l'antidoto. —

      Così pensando, incominciò la lettura:

      «Illustrissimo,

      «Eccomi a renderle conto della mia commissione. Appena giunto a palazzo sono andato nella camera di V. S. ed ho trovato il libro che mi aveva detto di portare in quel luogo. Ne ho fatto un involto, e volevo metterci anche la lettera; ma ho pensato che l'involto poteva essere inavvertentemente aperto in presenza di altre persone, e me ne sono astenuto…»

      – Bravo il mio Giuseppe! – esclamò a questo punto il lettore. – Ecco qui il vero tipo del cospiratore, che medita su tutto e prevede le più piccole circostanze. —

      «Andai verso il tocco – (proseguiva lo scrivente) – dalla nota persona, cioè quando mi fui accertato che era sola in casa, e domandai di parlarle, perchè avevo da consegnarle un libro. La cameriera mi disse che la signora non riceveva. Io allora diedi il libro, accennando che venivo da accompagnare V. S. e che desideravo anche di portarle i suoi saluti, insieme con una sua lettera, per una certa commissione, che non sapevo qual fosse, ma che credevo importantissima, per il modo con cui mi era stata raccomandata da lei la massima sollecitudine. Con questo mezzo, dopo due andate e ritorni della cameriera, potei essere ammesso alla presenza della signora; anzi fu lei stessa che si degnò di venire in anticamera. Consegnai la lettera, ed ella, dopo aver data una scorsa allo scritto, mi disse: – Grazie; sta bene. – Domandai se avesse niente da comandarmi, e mi rispose di no. Mi arrischiai a dirle (scusi se in questo ho arbitrato da me) che avrei trovato il modo di far giungere a V. S. lettere, carte ed altro che mi fosse consegnato; ma ella non mostrò di gradire l'offerta. Avrò fatto male, e gliene chiedo scusa, signor padrone; ma la mia intenzione era di far bene per il suo servizio. Ora, se debbo dirle tutto quello che penso, mi pare che la sua condanna al confine abbia raffreddato molte persone, di quelle che V. S. credeva più amiche, o con le quali andava più spesso. Il conte Nerazzi, per esempio, il marchese Landi, quando ho dato loro un cenno del suo viaggio, mi hanno risposto con un semplice monosillabo. Sarà forse perchè non hanno confidenza in un povero servitore; ma una notizia almeno potevano chiederla e mostrare un po' di amicizia per la sua persona. Oso sperare che in questo Ella non troverà sbagliato il mio umile ragionamento.

      «Altro non mi resta a dirle, signor padrone, e mi rincresce davvero di non aver niente di meglio. Il signor conte, suo padre, sta bene al solito; mi ha chiesto fin dove l'avessi accompagnato, e poi mi ha rimandato senza aggiungere altro; ma mi è parso di leggergli negli occhi qualche cosa che il suo cuore di padre non aveva da dire a me, e che Ella, del resto, indovinerà molto bene.

      «Mi comandi, signor padrone, che andrò nel fuoco, per poterla servire, e mi creda sempre il suo ubbidientissimo servo

       «GIUSEPPE.»

      Il conte Gino rimase male, dopo quella lettura. Ahimè l'antidoto sperato! Giuseppe, nella sua piccola diplomazia epistolare, lasciava indovinare assai più che non scrivesse. Ci si vedeva, nel suo racconto minuzioso, la gran dama seccata di dover concedere un'udienza all'inviato di Gino; alle cui notizie, poi, dava tanto poca importanza, da andarle a ricevere in piedi, sull'uscio di un'anticamera. La bionda Polissena si era mutata per lui, come il Landi e il Nerazzi, ricordati in buon punto dallo scrivente, per illuminar la figura della signora marchesa. I tiepidi amici facevano più che un riscontro, davano risalto alla freddezza dell'amica. Già, non era di Gino, la colpa? Che pazzia era stata la sua, di farsi mandare a confine? In quelle sciocchezze del giovanotto la signora marchesa non ci aveva che vedere, non essendosi mai occupata di politica. L'amore, infine, non vuol saperne di quella cattiva compagnia, e un uomo che veramente ami una gran dama non deve compromettersi con quella femminaccia. Neanche lei, la bella e savia marchesa, voleva compromettersi per il conte Gino Malatesti. Che diamine! Con tanti personaggi eminenti, di cui era composta la sua conversazione, magistrati, ufficiali del Duca, nobili ciambellani, signori ammessi a Corte, che si sarebbe detto di lei? E forse per protestare contro simili giudizi, contro simili sospetti, la marchesa Polissena aveva colta a volo la prima occasione, mostrandosi tutta invasata di artistici furori. Poteva credersi dolente per il caso di Gino Malatesti una bella dama che si adoperava tanto per far cantare la celebre Venturoli?

      Ah, come vedeva da quelle considerazioni balzar fuori netta e spiccata la figura morale della marchesa Polissena! Furente (sicuro, proprio furente, e mettete pure che quella esagerazione di sentimento non fosse senza una certa dose di voluttà), il conte Gino andò a sedersi davanti alla sua scrivania, e la penna incominciò a scorrere sulla carta. Il giovanotto non scriveva alla marchesa; scriveva a Giuseppe, suo servo fedele, innalzato di punto in bianco al grado di confidente. Anch'egli, senza avvedersene, prendeva le forme del cospiratore, e l'esordio della sua lettera veniva fuori misterioso e guardingo come un coro di congiurati. Per sue ragioni particolari gli premeva assaissimo di conoscere tutti gli andamenti della nota persona. Aveva veduto dalla prima lettera di Giuseppe come egli fosse intelligente; continuasse ad esserlo per utile suo. Da ciò che la nota persona faceva, egli, il conte Gino, avrebbe argomentato quel che pensava, e sugli atti e sui pensieri di quella avrebbe regolato il suo modo di pensare e di operare. La cura amorosa traspariva dalle frasi; ma non era detta apertamente, e questa era già una bella diplomazia. Inoltre, la nota persona poteva anche essere un uomo, e le apparenze erano salvate a buon prezzo.

      – Come manderò io questa lettera? – disse Gino, dopo averla suggellata. – Se fosse ancora qui l'applicato! —

      Ma l'applicato seguitava il signor commissario sulla via di Fiumalbo, e il conte Gino pensò che il mettersi sulle tracce dei due personaggi, anche col pretesto di mandar notizie a suo padre, non sarebbe stato senza pericolo.

      – Ebbene, – ripigliò, – di che cosa m'impensierisco? Non è qui vicina la provvidenza dei Guerri? Aminta, il mio fratello Aminta, ci penserà egli a farla ricapitare. —

      Poco dopo la chiusa del soliloquio giungeva Pellegrino. Egli aveva veduto i due signori di Modena discendere dalle Vaie, senza fermarsi, e prendere la via di Fiumalbo.

      – Benissimo! – disse il conte. – Allora è tempo di sellare il cavallo. —

      Mezz'ora non era passata, e Gino scendeva alle Vaie, con la fretta di un uomo che ha tante notizie da dare di sè, a persone che le udranno con piacere, e non vede l'ora di consolarsi in quella dolce «corrispondenza d'amorosi sensi.»

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