La montanara. Barrili Anton Giulio

La montanara - Barrili Anton Giulio


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di noioso o di lungo, per altro; – ripigliò l'oratore. – Una semplice ricognizione, e punto offensiva. Sua Eccellenza desiderava di sapere se Vossignoria ha trovato modo di collocarsi a Querciola.

      – Ci sono venuto subito, appena ricevuto l'ordine; – rispose Gino, niente ingannato dalla forma garbata in cui quell'altro gli presentava la cosa.

      – Veramente, – disse il commissario, – questo è un paese poco abitabile, se debbo giudicarne dalla strada che abbiamo fatta per giungerci, e dalla meschina apparenza delle case. M'immagino che Sua Eccellenza non lo conoscesse altrimenti che sulla carta. —

      Gino rispose con un cenno del capo, che voleva dire e non dire. A quel discorso del signor commissario, in verità, non c'era nulla da rispondere.

      – Siamo tra contadini a dirittura; – continuò il commissario. – Ed Ella, signor conte, non ci avrà distrazioni. —

      Gino sospirò; poi rispose al signor commissario:

      – Che farci? Il confine è una punizione, e come tale non ammette passatempi, oltre quelli che un uomo industrioso, ed anche di facile contentatura, sa trovarsi da sè.

      – Studiando, non è vero? Ha qualche libro, come vedo.

      – Poca roba, signor mio: la Bibbia, la Divina Commedia, una Storia Romana antica…

      – Ah, buono studio! – esclamò il signor commissario.

      – Certamente! – disse Gino. – È molto interessante. Par di vivere in tempi migliori.

      – E stava per l'appunto vivendo cogli antichi, quando noi siamo venuti a disturbarla.

      – No, per il momento facevo dell'altro; cercavo qualche notizia in questo Dizionario storico e geografico del Ducato. Desidero di conoscere questi paeselli di montagna, per fare qualche passeggiata.

      – Ottima cosa, poichè si è in campagna; – disse il commissario. – E qui ci ha una bella prospettiva?

      – Ne giudichi Lei, signor commissario. Si affacci pure alla finestra.

      Vedrà molto verde. —

      Il signor commissario si degnò di andare alla finestra, e di metter fuori il suo naso.

      – Sì, veramente, molto verde; – diss'egli ridendo. – Nient'altro che verde. —

      Gino, frattanto, si sentiva cacciar tra le dita qualche cosa, come una lettera, o un foglio di carta ripiegato.

      Si volse a guardare il compagno del commissario, l'inferiore di grado, il semplice applicato, e vide ne' suoi occhi un lampo, un cenno d'intelligenza, una raccomandazione muta. Poi quel lampo si estinse; il cenno e la raccomandazione si smarrirono nella tinta scialba della sua faccia marmorea.

      Il giovanotto ebbe a mala pena il tempo di far scorrere in tasca il foglio di carta, perchè il signor commissario si era già ritirato dal vano della finestra, per rivolgersi a lui.

      – Del resto, – disse l'oratore del governo ducale, dopo aver data una guardatina in giro, – Ella è abbastanza bene, in questa cameretta.

      – Con qualche mobile preso in affitto; – rispose Gino umilmente.

      – Difatti, – riprese il commissario, – questi mobili non somigliano punto agli altri della sala d'ingresso, e stuonano anche con la misera apparenza della casa. Mi maraviglio che abbia potuto trovarne in questi dintorni.

      – Appena giunto a Querciola ne dubitavo anch'io; – rispose Gino, seccato da quel discorso, ma vedendo la necessità di condurre il suo interlocutore fuori di strada. – Ma offrendo danaro… Ella mi capisce!

      – Buona cosa averne molto; – osservò giudiziosamente quell'altro, che forse pensava in quel punto al magro stipendio per cui faceva da tanti anni un ingrato mestiere. – Ella è felice, signor conte!

      – Ma sì, ma sì! Non mi lagno.

      – Ed ha notizie di suo padre, di quell'ottimo conte Jacopo?

      – Nossignore, e di nessuno della mia famiglia; – rispose Gino, contentissimo di essere uscito salvo dalla rassegna dei mobili. – I miei parenti mi tengono il broncio, e si capisce, perchè il governo mi ha preso in sospetto come un reprobo.

      – Eh via! – disse il commissario, con accento di benevolenza somma. – Non chiami castigo una correzione paterna, per una colpa giovanile… che forse non sarà nemmeno una colpa.

      – Dice bene, e levi pure il forse.

      – Tanto meglio, e me ne congratulo con Lei; – ripigliò il commissario. – Allora è da sperare che tutto venga in chiaro tra breve, e che, per conseguenza, dopo un paio di mesi… dopo tre…

      – Metta anche sei; – interruppe Gino. – Non è privilegio della verità il venire così presto alla luce. Ella sa, signor commissario, che questa bella signora l'hanno relegata nel fondo di un pozzo. —

      Il vecchio funzionario sorrise. Capiva anch'egli benissimo che il confine non sarebbe levato così presto e che il conte Malatesti non poteva pascersi di troppe speranze in proposito.

      – Speriamo almeno, – diss'egli, – che per i meriti del suo signor padre…

      – Ecco, veda; – replicò Gino, mozzandogli le parole in bocca. – Per i meriti di mio padre possono dare un'altra decorazione… a mio padre. Il figlio, se ha errato, paghi; se non ha errato, riconoscano la sua innocenza. Non Le pare?

      – È la logica, lo riconosco; – rispose il commissario, che incominciava a seccarsi di quella disputa, in cui il conte Gino voleva aver sempre ragione. – Ma Ella vuol troppo severo il nostro venerato governo, ed amo credere che ciò sia perchè Ella non ha ragione di meritarne i rigori.

      – È così; – disse Gino.

      – Dunque, signor conte… vuol notizie di Modena? —

      Gino aveva sperato che il commissario si disponesse a prendere commiato, e già era per alzarsi. Il resto della frase lo trattenne. In fondo, meglio così; la conversazione prendeva un tono migliore, e le notizie di Modena erano sempre buone a sapersi.

      – Mi fa un favore; – diss'egli inchinandosi.

      – Prima di tutto, il suo signor padre sta bene. L'ho veduto ieri mattina in via Emilia, che andava a fare la sua solita passeggiata. Gli altri di casa sua, tutti bene egualmente. È ammalato il conte Azzolini, canonico del Duomo; ma quello ha ottantasei anni, poveretto, ed è pieno di acciacchi. Il marchese Frassinori è caduto ier l'altro da cavallo, ma senz'altro danno che qualche contusione. Le belle signore di Modena son tutte in grande fermento, per la riapertura del teatro.

      – Diamine! – esclamò Gino. – E perchè si riapre il teatro?

      – Caso strano, signor conte, caso eccezionale! È venuta a passare qualche settimana in patria la nostra famosa Venturoli, stella di prim'ordine nel cielo dell'arte, reduce dai suoi trionfi di Pietroburgo. Ella ha accettata la proposta di farsi sentire dai suoi concittadini, e darà quattro rappresentazioni, due della Lucia di Lamermoor e due della Sonnambula, che sono, come Ella sa, i suoi due cavalli di battaglia. Grande aspettazione, perciò, e si prevede che verrà molta gente, anche da Guastalla e da Reggio. Noi siamo debitori di questa fortuna insperata alla signora marchesa Baldovini.

      – Ah, bene! – disse Gino. – È una dama di buon gusto, la signora marchesa. Strano, per altro, che non mi abbia detto nulla di tutto ciò, l'ultima sera che ebbi l'onore di andare alla sua conversazione.

      – Si capisce: la cosa è nata lì per lì, appena si seppe che la Venturoli era giunta. La marchesa ha conosciuta la celebre cantante a Milano. La conosceva già da ragazza, io credo; ma deve aver rinnovata la conoscenza, quando la nostra insigne concittadina fece quel gran fanatismo alla Scala, sei o sette anni fa. L'altra sera, in conversazione, fu detto alla marchesa che la Venturoli era a Modena. So la cosa dall'illustrissimo signor presidente del tribunale, che ha qualche bontà per me, ed è così bravo


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