La montanara. Barrili Anton Giulio

La montanara - Barrili Anton Giulio


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di sè, non sapendo che opporre a quella argomentazione serrata. Ma una donna, saprete anche questo, non può restare troppo a lungo senza ragioni con cui schermirsi da un attacco di parole.

      – Sì; – diss'ella, dopo quell'istante di pausa; – ma Ella non ha risposto alla mia prima domanda. Le parlavo de' miei conigli; se ne ricorda? Capisco; – soggiunse ella subito, non lasciandogli tempo a rispondere; – questa mia le sarà parsa un'occupazione volgare. Ma l'avverto, signor conte, che non ci sono solamente i conigli. Passeremo poi alle galline, ai colombi…

      – Ed anche ai buoi! – gridò Gino, interrompendo a sua volta. – Son belli anch'essi, e i loro occhioni umidi piacquero tanto ai Greci, che essi ne fecero una particolarità della bellezza di Giunone, della regina di tutti gli Dei. I buoi, si dice, non sono intelligenti. La cosa non è provata; ma, se anche lo fosse, che importerebbe? Questi animali sono operosi e buoni; vivono nel campo e per il campo; hanno la pazienza dignitosa, che non è facile trovare in altre bestie, e neanche tra gli uomini; formano parte integrante del paese, componendosi stupendamente con la sua prospettiva, e completano, direi quasi, il sentimento morale che sorge spontaneo dalla sua agreste bellezza.

      – Ho piacere che senta la poesia dei nostri monti, delle nostre convalli, com'Ella diceva poc'anzi.

      – E che crede, signorina? Che della poesia non ne nasca più, nelle nostre pianure?

      – Ah, bene! – esclamò Fiordispina. – Questa è una restituzione.

      – Per esser pari; – disse Gino umilmente.

      – E lo siamo ora; – rispose la fanciulla. – A me piace molto la sincerità.

      – In ogni cosa?

      – In ogni cosa. Perchè mi fa questa domanda?

      – Per aprirmi la via a fargliene un'altra.

      – Interroghi pure; son qua; – disse Fiordispina con quella sua gravità che mal nascondeva la voglia di ridere.

      – Orbene, – riprese Gino, – per la sincerità… Ella non ignora che sono stato accolto dal signor Francesco come un figliuolo della famiglia. Fratello con Aminta, lo sono del pari con Lei. Per la sincerità, dunque, mia sorella Fiordispina dovrebbe dirmi una cosa.

      – Anche due.

      – Non sarò tanto indiscreto. Le domanderò solamente come passa la sua vita alle Vaie.

      – Ma… Come vuole che la passi? Come la passerei dovunque: cioè molte ore del giorno in casa, a cucire, a curar le faccende di casa, a leggere, a suonare il mio pianoforte, e poi, mattina e sera, un pochettino a passeggio.

      – Ah sì! – disse Gino. Il passeggio… Che passeggio può essere il suo, alle Vaie?

      – È bello anche qui, e piacevolissimo; – rispose la fanciulla. – Ci sono, sparse in questi dintorni, tutte le bellezze naturali che nelle città si ottengono a forza di imitazioni e d'artifizi. Stamane, andando a Querciola, non l'ha veduta, la cascata del Chiuso? Dicono che somigli tanto all'orrido di Varenna, sul lago di Como. E la salita del Poggio? Dev'essere una specie di Montagnola, col suo bel colmo all'aperto, meno la vista di Bologna nel basso.

      – E meno la gente a passeggio per i suoi larghi viali; – osservò il conte Gino.

      – Che importa? – replicò la fanciulla. – Si è più soli, qui, ma si è per compenso più liberi. Cerca la compagnia della gente chi ha ragione o desiderio di farsi vedere.

      – Per il desiderio, passi; ma la ragione, nel caso suo, ci sarebbe davvero. Ma lasciamo stare questi discorsi, che avrebbero l'aria di preparare un complimento…

      – Non hanno più l'aria; – interruppe Fiordispina, ridendo. – Il complimento è già fatto.

      – Ah sì? Non me n'ero avveduto; – rispose candidamente Gino. – Ma l'orizzonte di queste sue passeggiate?..

      – È breve, e mi basta.

      – Le basta? Le basta? Mi permetta di dirle che ciò è molto strano.

      – Perchè?

      – Perchè… Non saprei come dirglielo, ma sento così. Ci sono i momenti, nella vita, che l'anima non si contenta della sua prigione, e vorrebbe spaziare in più libera cerchia; dei momenti che il pensiero va lontano, di là dai monti, cercando.

      – Per trovar che cosa? – domandò Fiordispina.

      – Non so; forse altri monti. Ma questa è colpa del mondo, che è fatto così, non dell'anima nostra, che anela a cose migliori. E poi, signorina, anche ignorando la meta, si cerca, si desidera, si aspira, per un'idea confusa di ciò che sarà, o di ciò che dovrebbe essere un giorno. —

      Fiordispina levò gli occhi, mandando anch'ella uno sguardo, lo sguardo dell'anima, di là dai mari e dai monti; poi disse:

      – C'è una ballata di Goethe, che esprime un sentimento come questo.

      Nel Wilhelm Meister, mi pare. —

      Il conte Gino Malatesti non era così forte di letteratura straniera.

      – Ho piacere d'incontrarmi con un tant'uomo; – diss'egli; – ed ho piacere che Ella possa citarlo così. Ma anche questo è strano, nelle convalli del Cimone; e sia detto senza offendere la dignità di questo bel monte. Dovrà Ella, signorina, vorrà e potrà viverci sempre? —

      La fanciulla rimase un istante sovra pensiero. Non c'era qui nessun autore da citare? Io penso piuttosto che Fiordispina non era pedante, come son troppi, uomini e donne che hanno studiato, e che non condannava la gente a sentire ad ogni tratto un saggio delle sue letture predilette.

      – Non mi risponde nulla? – ripigliò il giovanotto.

      – Che cosa rispondere a questa domanda? Non è in mio potere; – disse Fiordispina. – Sarò io la foglia che vola dove il vento la porta? Sarò io l'umile pianta che muore dove è nata? Certo è che bisogna rassegnarsi. Foglia o tronco, ci governa il destino.

      – È fatalista?

      – No davvero; dico il destino, per modo di dire, ed intendo una volontà superiore. Ma lasciamo la filosofia, per carità; – soggiunse ella, con un gesto di terrore. – Vede, signor conte? I miei conigli scappano. Queste povere bestiuole non hanno meritata una lezione così severa. Del resto, non la intenderebbero neanche. Basta a loro di aspettare ogni giorno la provvidenza mia, come l'aspetteranno a quest'ora le galline e i colombi.

      – Andiamo! – disse Gino. – Se possiamo adoperarci per la felicità di qualcheduno, sulla terra, non dobbiamo farci pregare.

      – Ecco un bel pensiero, signor conte. —

      Così dicendo, la fanciulla dei Guerri si avviò verso l'uscio. Gino la seguì, e richiuse diligentemente la porta, senza farselo dire da lei. Vedrete da questo piccolo particolare che il conte Malatesti non era uno sventato, e che entrava con molta sollecitudine nella gravità dell'ufficio.

      Per quella mattina non più ragionamenti con la fanciulla dei Guerri; fu solamente quello scambio di parole che era necessario nelle piccole vicende, nelle insignificanti peripezìe d'una visita al pollaio e alla colombaia. Poi venne l'ora del pranzo; ed anche a tavola non furono che discorsi vani, o senza importanza, tra i quali il nostro giovanotto se la cavò discretamente, nascondendo il sentimento di tristezza che si era impadronito di lui.

      Che cos'era avvenuto? Esplorare i segreti di un'anima è cosa difficile assai, e meglio varrebbe inventare di sana pianta. Ma le invenzioni non giovano che a patto di essere verisimili. Voi per esempio avrete sentito dire le mille volte che spesso avvenga di esser tristi senza ragione. Ma è proprio vero, questo? E non è a vederci piuttosto un effetto della nostra ignoranza, per difetto d'indagini? In quei momenti di tristezza, chi ben cerchi, c'è sempre il fatto d'uno squilibrio morale tra ciò che siamo e ciò che vorremmo e dovremmo essere. Sia luogo o genere di vita, o sentimento più intimo, se ciò che noi siamo per necessità, o che la nostra stoltezza ci ha condotti ad essere, non corrisponde a quello che intravvediamo di meglio, è


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