La montanara. Barrili Anton Giulio

La montanara - Barrili Anton Giulio


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      Era un monologo in tutte le regole, il suo. Ma noi li stendiamo sulla carta, i monologhi, e dobbiamo tirarli a fil di logica, mentre nel fatto essi procedono più rotti nell'argomentazione e più snelli. Molte cose, necessarie nella scrittura, lo spirito le vede e le tralascia, non dicendo a se stesso se non quel tanto che gli piace di più.

      Il conte Gino, per altro, non fu molto contento del suo soliloquio. E perchè, Dio buono, se lo aveva fatto egli? L'uomo è di sua natura egoista. Si può senza troppo sforzo di educazione arrivare al punto di non desiderare la casa e la fortuna del prossimo; ma nessuna educazione può condurci a vedere di buon occhio che altri s'impadronisca e goda il pacifico possesso d'un fior di bellezza che abbiamo osservato ed ammirato noi. Noi, capite? Noi persona prima del singolare, quantunque i grammatici, buona gente, l'abbiano assegnata al plurale. L'ammirazione nostra è una specie d'ipoteca che prendiamo sulla cosa che ci ha colpiti e che farebbe tanto bene ad appartenerci. Ora, per un sentimento di questa natura, il conte Gino era triste? Lo sospetto fortemente, ricordando che nella chiusa del suo monologo egli fece una spallata, come se volesse con quella scacciar l'uomo «non troppo zotico e materiale», a cui in una spensierata liberalità di discorso aveva concessa la fanciulla dei Guerri.

      Dopo quella spallata, il giovinotto escì dalla stufa. Fiordispina, traversando le aiuole, veniva dalla sua parte; era già abbastanza vicina, e poteva entrare nella stufa, ed anche rasentarla soltanto; ma nell'uno e nell'altro caso avrebbe veduto l'ospite, ed egli avrebbe avuto l'aria di essere stato ad osservarla, a spiare i suoi passi. Escì, dunque, ed ella lo vide e gli sorrise.

      – La signorina, – disse Gino, muovendo verso di lei, che si era fermata, – veniva a vedere i suoi fiori?

      – No, veramente; – rispose ella; – andavo più in là. Non cerco fiori, porto foglie; – soggiunse, mostrando il suo grembiale, che teneva raccolto per i due capi.

      – Ah! – esclamò Gino. – Un pasto mattutino! E dov'è la famigliuola che lo avrà dalle sue mani?

      – Qui presso. Vuol vederla?

      – Volentieri, se permette.

      – Bene, venga allora con me. —

      Gino s'inchinò e la seguì. Fiordispina andava leggiera lungo le invetriate della stufa. Sicuramente, se egli fosse rimasto là dentro, ella lo avrebbe veduto allora, poichè rivolse, passando, un'occhiata curiosa alle piramidi dei fiori.

      – Ah, signorina! – disse Gino. – Che stupende eriche ho vedute or ora!

      – Son belle davvero; – rispose Fiordispina. – Eriche del Capo di Buona Speranza.

      – Niente di meno! – esclamò il giovinotto.

      – E delle prime che siano venute in Europa; – replicò Fiordispina.

      – Ed io, abitante del piano, – disse Gino, – dovevo venire a trovarle fra i monti!

      – Mah! Segno che c'è qualche cosa, anche tra i monti! – ribattè la fanciulla.

      – Lo so, signorina, lo so, e non potrei dimenticarlo mai più. Ma parlavo delle eriche del Capo.

      – Infatti, – ripigliò Fiordispina, – c'è una ragione naturalissima, che spiega la novità della cosa. Un amico della famiglia, che ha viaggiato molto, le ha portate in dono a mio padre.

      – Buona Speranza! – mormorò Gino. – Buona Speranza! —

      E cercava il filo di un madrigale; ma non gli venne, ed egli ci rinunziò, anche per il fatto che si era giunti davanti ad un porticato rustico, e che la fanciulla metteva il piede là dentro.

      Erano le stalle. Perdonate il vocabolo, o lettrici garbatissime, e sopratutto non arricciate il naso, dovendo seguire fin là i nostri due personaggi, perchè altri vi avranno condotte, letterariamente parlando, in luoghi peggiori di questi. La stalla, in fin de' conti, è sana, e non c'è caso che sia male abitata: o se lo è qualche rara volta, si manda per il veterinario, la cui diagnosi e la cui terapeutica sono assai meno complicate di quelle del fisiologo, dell'antropologo e del moralista.

      La fanciulla dei Guerri aperse l'uscio di una stanza bene illuminata da due finestre alte, e dove, oltre la paglia sparsa sul pavimento, si vedevano lungo la parete alcune casette di legno.

      – Richiuda, la prego; – diss'ella a Gino, che l'aveva seguita. – Le mie bestiuole mi vogliono bene, ma sarebbero anche capaci di antepormi la libertà.

      – Cattive bestiuole, allora! – rispose il giovanotto.

      – Che vuole? Sono irragionevoli, e non intendono la loro grande fortuna; – replicò ella, dando in uno scoppio di risa argentine.

      – Come lo dice! – esclamò Gino. – Pare che non ne sia persuasa.

      – Anzi, ne sono persuasissima; – disse la fanciulla ripigliando la sua gravità. – Le mie bestiuole hanno fortuna davvero, perchè vivono qui ben riparate dalla neve, dalla pioggia, dai venti, con la sicurezza del cibo ogni stagione dell'anno, e senza alcun timore delle martore. Poi, hanno tutti i giorni un po' di foglie verdi, come ora. Vede? Anche nel cuore dell'inverno, perchè non ne manchino mai, si pianta l'insalatina dentro la stufa. —

      Mentre ella così parlava, erano escite dai loro abitacoli di legno parecchie coppie di conigli, tutti bianchi, senza la più piccola macchia di nero o di bigio, con gli occhi grandi e mobilissimi, i musi rosei, le orecchie lunghe e morbide. Vennero saltellando verso Fiordispina, ma videro quell'altro che si accostava anche lui, e scapparono tutti alla lesta. La fanciulla li richiamò, chinandosi a terra con le sue provvigioni, e quei graziosi animali, via via rinfrancati, tornarono, per avere la parte loro in quella distribuzione di foglie di cavolo. Brassica sativa, che diamine! Il nome latino sarà più difficile, ma un po' meno prosaico. E intanto che addentavano allegramente le foglie verdi, quei timidi animali si lasciavano correre la mano carezzevole di Fiordispina sulle orecchie e sul dorso. Uno di essi, certamente beniamino, si lasciò anche prendere di soppeso, ma senza abbandonare la foglia, che continuò a sgranocchiare tra le braccia della sua bella padrona.

      Gino potè ammirarlo anch'egli e carezzarlo un poco. Ma stando egli a così breve distanza dalla portatrice, vedeva anche molto bene la graziosa testina di lei e le ciocche morbide, ricciolute, finissime, che sbucavano fuori dalla cerchia gelosa del suo fazzoletto di seta. Aveva tralasciato di accarezzare il coniglio; taceva; non respirava neanche; forse aspirava le fragranze giovanili di Fiordispina. Le donne, lo sapete, anche stando ad occhi bassi, vedono, in simili casi, o indovinano tutto quel che succede. Fiordispina calò a terra il suo piccolo beniamino, che seguitò a sgranocchiare, come se nulla fosse; quindi, risollevata la persona, si tirò con molta naturalezza due passi indietro.

      – Dunque, – diss'ella, rompendo il silenzio, – le piace la mia famiglia?

      – Signorina, – rispose Gino, scuotendosi, – tutto ciò che la circonda mi piace.

      – Complimenti?

      – Io? Non so farne.

      – Badi; allora le vengono alle labbra spontaneamente.

      – Se lo dice per questa volta, badi anche lei, signorina: non è stato un complimento. Sarei disposto a provarglielo.

      – Sentiamo; – disse Fiordispina, senza levar gli occhi dalle sue candide bestiuole.

      Il conte Gino incominciò:

      – Che cos'è, prima di tutto, quello che la circonda? Le cure dei suoi, del babbo, delle zie, del fratello; non è vero? Ella ora mi permetterà di dirle, e mi crederà quando io le dico che queste amabili persone mi piacciono. Allarghiamo il cerchio intorno a Lei: viene la casa, ed io sarei un ingrato, se non amassi il luogo dove ho ricevuto una così gentile accoglienza, una così schietta e cordiale ospitalità…

      – C'è dell'altro? – interruppe Fiordispina.

      – Sicuro, perchè la cerchia s'allarga ancora; – rispose Gino. – Intorno a Lei, ai suoi parenti, alla, casa, ci sono le Vaie, c'è questa convalle così verde e così fresca, con


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