I rossi e i neri, vol. 2. Barrili Anton Giulio
nelle acque di Soria, in vista di Tripoli. Trascinatosi a stento sul cassero di poppa, Goffredo Rudel salutò le bianche torri della sospirata città, che parevano accostarsi a lui sulla liquida superficie, e non volle smuoversi da quella contemplazione fuorchè per scendere a riva. Ma un tanto sforzo lo aveva stremato; e quando, a gran fatica di braccia amorevoli, calato in uno schifo, fu condotto a terra più morto che vivo, parve necessario portarlo immantinente allo spedale dei pellegrini, dove si credette che in quella notte medesima dovesse render l'anima a Dio.
– Poveretto! – esclamò la pietosa Torralba.
– «In tali distrette – proseguì Aloise – Bertrando di Alamannone fu sollecito a recarsi presso il conte di Tripoli. Ma il conte Raimondo non era in città, sibbene ai confini della sua vasta contea, per abboccarsi con un messaggero del Saladino, al quale egli, cristiano, doveva più tardi riuscire di così valido aiuto nella conquista di Gerusalemme. Vide in quella vece la contessa e n'ebbe le più oneste accoglienze che sperar si potesse. E allorquando egli ebbe detto a quella nobile dama com'egli fosse giunto in compagnia del signore di Blaia, la cui fama era pervenuta fino a lei, insieme coi suoi versi d'amore per essa (perchè allora le canzoni dei trovatori correvano il mondo, in quella stessa guisa che oggidì corrono i libri dei più famosi scrittori) e come il gentil trovatore fosse ridotto in fin di vita, ella fu presa da così forte turbamento che la costrinse a sorreggersi sulle braccia delle sue ancelle, per non cadere come corpo morto sul pavimento.
«La donna che sa d'essere amata, è facilmente pietosa (almeno così dicono): e la contessa di Tripoli sentiva nei canti celebrati di Goffredo Rudel e nella fama che del suo affetto correva da più anni in Europa e sulle spiaggie di Palestina, di essere la più amata tra tutte le donne della cristianità. Epperò, tornata in sè stessa, non volle mettere indugio a vedere il morente, e corse, volò, in compagnia di Bertrando, allo spedale dei pellegrini.
«Allorquando dalle labbra dell'amico, che era corso innanzi, udì Goffredo che la sospirata donna gli era già tanto vicina, non seppe resistere a quella grande allegrezza, e uscì per tal modo fuori de' sensi, che fu da Bertrando creduto morto senz'altro.
« – Ahimè, – gridò la contessa di Tripoli, entrando nella cameretta e vedendo quella pallida fronte supina sul capezzale – che questa mia infausta bellezza ha ucciso il più gentil cavaliere che al mondo fosse! —
«E corsa alla sponda del letto, ov'egli giaceva, strinse quella mano che pendeva prosciolta sul ruvido copertoio, e recatasela alle labbra, la baciò amorosamente più volte.
«Al tocco di quelle labbra, tornò in sensi, riaperse gli occhi il moribondo, e vide finalmente, ahi troppo tardi! quella immagine divina. Un'aria di supremo contento gli si diffuse sul volto; la sua mano strinse dolcemente quella di lei; i suoi occhi si affisarono estatici sul bianco viso, sul collo, sugli omeri, e sulla persona tutta quanta di quella gentile, quasi non volessero perdere un lineamento, un contorno, di tanta bellezza. Così guardandola, e palpitando, raggiando verso di lei con tutte le forze stremate dell'anima sua, notò Goffredo le lagrime che le sgorgavano copiose dagli occhi.
« – Madonna, – diss'egli allora, con un filo di voce, e traendo a sè, come gli veniva fatto, quella maravigliosa persona, – qui, qui, presso a me, ve ne prego, che quelle dolcissime lagrime non vadano perdute!
« – State di buon animo, messere! – soggiunse ella, accostando la sua alla faccia di Goffredo, per modo che i suoi capelli ricadenti gli sfiorarono le guance e l'alito della sua bocca scese come una divina ambrosia a rinfrescargli le labbra; – Voi risanerete, e la nostra corte udrà ammirata i nuovi versi di un sì gentil trovatore. —
«A queste parole della contessa di Tripoli, Goffredo crollò malinconicamente la testa sull'origliere.
« – No, madonna, – ripigliò; – io mi sento morire. Solo la speranza di vedervi una volta, mi ha serbato questo soffio di vita. Addio, madonna; io non mi dolgo ora della morte, ora che vi ho veduta. Il mio labbro ha bevute le vostre lagrime; il mio cuore le porterà nella tomba. —
«Furono le ultime parole di Goffredo Rudel, che poco stante, felicissimo nella morte, com'era stato infelicissimo in vita, esalava lo spirito tra le braccia della donna adorata. La quale compose la salma di lui in una ricca ed onorevole sepoltura di porfido, su cui fece intagliare alcuni versi in lingua arabica, a ricordo di un così grande amatore.
«E i versi tutti che Goffredo Rudel aveva composti in lode di lei, fece trascrivere in lettere d'oro e serbò gelosamente con sè. Ma, da quel giorno, mai più la contessa di Tripoli fu veduta con faccia lieta. Visse ancora, ma soltanto per ricordare quel giorno, quell'ora, in cui avea conosciuto, e perduto ad un tempo, il signore di Blaia.
«Il codice dei trovatori che si conserva a Roma, nella biblioteca Vaticana, racconta che la contessa di Tripoli, come potè farlo liberamente, si chiuse in un monastero. Tutti gli altri cronisti narrano che non tardasse molto a seguir nella tomba l'uomo che era morto d'amore per lei.»
V
L'uomo propone e la donna dispone.
Così finì il racconto di Aloise di Montalto, che, interrotto sul principio dalle gaie considerazioni della brigata, fu poscia, a mano a mano che si avvicinava alla catastrofe, ascoltato con molto raccoglimento da tutti, segnatamente dalle tre dame.
– Se amassero tutti come Goffredo Rudel! – disse la bianca Maddalena. – Ma, pur troppo, nella vita comune non sarà così; e il suo caso…
– Il suo caso prova, – interruppe prontamente Aloise, – che gli uomini non sono poi così brutti come le signore donne li dipingono.
– Non lo nego, – rispose la marchesa Maddalena, – ma il caso è tuttavia dei più strani. —
Aloise si preparava a rispondere; ma Ginevra, accennando col gesto di voler parlare, gli ruppe il filo delle sue argomentazioni.
– Io qui non sono dalla tua; – disse Ginevra. – Io so di un caso anche più strano. —
E così dicendo, ella aveva volto lo sguardo ad Aloise.
– E quale? – dimandò egli.
– Quello del signor Aloise, che sa così bene la storia di Goffredo Rudel, da raccontarcela con tanti particolari, e ricorda i suoi versi provenzali e li ha tradotti per giunta. Sareste per caso un dilettante d'anticaglie?
– Un pochino, signora; – rispose il giovine, cercando di vincere il suo turbamento. – Son sempre vissuto volentieri coi vecchi libri, e se la storia che ne ho cavata non v'è riuscita spiacevole…
– Che dite voi mai? C'è andata anzi a genio, e ve ne siamo gratissime. Peccato che non sappiate anche quella di Percivalle Doria, che vi pregheremmo di raccontarcela adesso. Ho letto questi due nomi in un libro francese, – soggiunse ella, a mo' di parentesi, – e m'era venuta la curiosità di sapere chi fossero. Il secondo, a giudicarne dal nome, dovrebbe essere un genovese. Spero che voi, così dotto nella materia, vorrete cercarne sui libri, e narrarci di quest'altro tra breve.
– Anche domani! – rispose Aloise. – Questa sera medesima andrò a scartabellare i miei vecchi amici.
– Non tanta fretta! – esclamò Ginevra. – Noi leggeremo stasera, se vi piacerà rimanere, quel proverbio di Alfredo de Musset che dicevamo ieri, e che reciteremo sul nostro teatrino rustico, all'aria aperta. Non volete voi che vi diamo una parte? —
A quel cortese invito di Ginevra, la gioia balenò sugli occhi del giovine. Ma tremò in cuor suo l'amico Pietrasanta, a cui la lettera di Lorenzo Salvani bruciava, stiam per dire, nella tasca della giacca.
Come vengono le inspirazioni? Gli antichi, per cavarsela dai viluppi psicologici, le facevano discendere senz'altro dal cielo. Per non metterci a nostra volta nel ginepraio, le deriveremo anche noi di lassù, raccontando che dal cielo venne una ispirazione ad Enrico Pietrasanta; sebbene egli, facendo l'atto di grattarsi una certa protuberanza dietro l'orecchio, dimostrasse che gli veniva dal cervello, posto in quel momento a tortura.
– Voi dicevate dunque, o signora, – entrò egli a dire sollecito, – che vi piacerebbe sapere la