I rossi e i neri, vol. 2. Barrili Anton Giulio

I rossi e i neri, vol. 2 - Barrili Anton Giulio


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non rimanere più oltre perplesso.

      – E li sapete voi?

      – Da capo a fondo.

      – E perchè non dircelo subito?

      – Perchè… perchè volevo anzitutto raccapezzarmi… Ho letto anch'io la mia parte di libri vecchi.

      – Benissimo! – saltò su a dire il Cigàla. – Anche a te, Pietrasanta, s'è dischiusa la vena?

      – Sicuro, e perchè no? Certo, non racconterò così bene come il mio amico Aloise; ma ognuno fa quel che può, e in fin de' conti, meglio poco e male, che nulla.

      – Sentiamola, – disse Ginevra, – sentiamola dunque, la vostra storia!

      – La mia, signora?

      – Sì, quella che sapete voi. Ho detto forse male?

      – Tolga il cielo che io voglia correggervi! – rispose Enrico, che pure avea sentita la botta, e l'aveva per tale. – Voi ci avete le labbra d'oro!

      Questa volta fu Ginevra che s'inchinò, per ringraziar l'oratore.

      – I complimenti del nostro amico Pietrasanta, – ella soggiunse, – ci fanno pensare che udremo un'altra storia da mandar superbo il nostro sesso.

      – Oh no, signora, no!

      – Come, no! – interruppe la Giulia. – E avreste allora il coraggio di raccontarla?

      – Certamente! Le storie si seguono, e non si rassomigliano. Quella di Aloise incominciava coll'amicizia, e finì coll'amore. La mia rimane da capo a fondo fedele alla amicizia. Io non posso già inventare di pianta! Questa è storia perfetta, la storia, che è donna, non fa complimenti mai, nè a donne, perchè eguale, nè ad uomini, perchè superiore.

      – Via, consoliamoci! – disse Ginevra. – Questo almeno è uno zuccherino per noi.

      – Voi lo vedete; – ripigliò il Pietrasanta, – finora la storia non è cominciata, e son io che parlo. Ma torniamo al fatto; che cos'è poi l'amicizia? L'amore senz'ali.

      – Perciò rade la terra! – notò asciuttamente la Giulia.

      – Ma almeno non vola via; – disse Enrico di rimando.

      – Ben parata! – esclamò il Cigàla, a cui quelle scherme piacevano; – che ne dite, signora?

      – Dico, signor Cigàla, che udremo di belle cose, in verità! – rispose la Giulia, fingendo lo sdegno. – Ma via, signor Pietrasanta, raccontate la storia del vostro Percivalle; la Corte d'amore, qui sedente, vi giudicherà. —

      Così posto alle strette, Enrico incominciò il suo racconto ai maravigliati uditori. Ma la più gran meraviglia era quella di Aloise, il quale ben sapeva come il Medio Evo non fosse il forte dell'amico Pietrasanta. Che diamine racconterà egli? chiedeva Aloise tra sè. Certo, Enrico ha le sue gravi ragioni, per mettersi in questo garbuglio!

      Frattanto, come abbiam detto, Enrico Pietrasanta prendeva il largo.

      – Percivalle Doria, – incominciò egli, – fu buon poeta provenzale, come i suoi due concittadini Lanfranco Cigàla e Folchetto, che molti s'ostinano, contro l'autorità del Petrarca, a reputar marsigliese. Io spero che la gravità di questo esordio mi concilierà l'attenzione della nobilissima udienza.

      – Contaci su! – rispose il Cigàla, discendente di Lanfranco.

      – Grazie! – ripigliò il Pietrasanta. – Ora, perchè il mio eroe si allontanasse da casa e di cittadino genovese diventasse trovator provenzale, non saprei raccontarvi. Ben so che uscì giovanissimo dalla terra natale, e andò alla corte del re di Francia, Odoacre… cioè, Faramondo… anzi no. Luigi Filippo… Insomma, il nome non mette conto saperlo.

      – Lasciamo stare il nome del re; – disse Ginevra ridendo, – ma almeno diteci il secolo, per non farci correre su e giù, quanto è lunga, la storia di Francia.

      – Il secolo, signora? Avete ragione! Percivalle Doria fiorì (notate la bellezza del verbo) nel secolo decimoterzo, o giù di lì.

      – Sta bene; e adesso, proseguite!

      – Proseguo. Percivalle Doria era alla corte del re di Francia…

      – Odoacre! – notò sarcasticamente la marchesa Giulia.

      – No, Alboino! – rispose il Pietrasanta, sul medesimo tono. – Adesso me ne ricordo; era proprio Alboino. Or bene, il mio Percivalle era un fior di cavaliere, sebbene non credesse all'amore, nè ad altre cose parecchie.

      – Era un miscredente, adunque? – dimandò Ginevra.

      – No: era un uomo che conosceva il mondò e amava la vita, senza concederle una soverchia importanza. E non istate a credere che avesse patito gravi disinganni, perchè era giovine, e la fortuna gli era sempre stata propizia. Ma egli, più felice di tanti e tanti, i quali non acquistano l'esperienza delle cose umane se non a proprie spese, l'aveva acquistata alle spese altrui, vedendo ciò che agli altri accadeva, e facendone tesoro per sè.

      – Come può esser ciò? – chiese a sua, volta la Torralba.

      – Non saprei, signora, darvene una spiegazione plausibile, se non col dirvi che nella grande famiglia umana ci sono i caratteri privilegiati, i quali imparano nelle miserie altrui a cansare per se medesimi i dolori della vita.

      – Privilegiati! – soggiunse la marchesa Ginevra. – Dite piuttosto senza cuore.

      – Oh, vedrete se non ci avesse cuore, il mio Percivalle! – disse di rimando il Pietrasanta. – Egli era, ripeto, alla corte d'Alboino, dove gli avvenne di stringersi in salda amicizia con messere Alardo di Anglona gran siniscalco del re; il quale messer Alardo, a sua volta, era amicissimo di un povero ma gentil cavalier normanno, chiamato Laurent di Sauvaine.

      – Erano in tre! – disse il piccolo Riario.

      – __Omne trinum est perfectum!__ – rispose, senza turbarsi, il Pietrasanta. – Ora udite che cosa avvenisse al povero Laurent di Sauvaine. A cagione di un suo alterco con un possente barone, egli era tenuto lontano dalla corte, Messere Alardo, in quella vece, ci viveva da mattina a sera, e per ragione dell'ufficio suo, e per altro ancora, che gli faceva dimenticare ogni altra cosa che al mondo fosse. Notate, nobilissime dame, come parlo anch'io in pretta lingua del Trecento! Ora, poichè Laurent di Sauvaine, lontano dagli occhi, era anche lontano dal cuore di Alardo d'Anglona, il trovatore, che li aveva in gran pregio ambedue, e si doleva di questa dimenticanza di Alardo, scrisse una canzone bellissima, che io pur troppo non rammento in provenzale, e che in italiano non ho saputo voltare, nella quale erano fortemente biasimati coloro che dimenticano gli amici, poichè l'amicizia, com'è superiore alle mondane ambizioni, così deve essere superiore all'amore.

      – In verità, – interruppe la marchesa Giulia, – era poco galante, il vostro Percivalle, e voi, signor Pietrasanta, non siete da meno di lui.

      – Badate; – aggiunse Ginevra, – se andate innanzi di questa guisa, non vi daremo più ascolto.

      – Lo volesse il cielo! – disse in cuor suo il narratore impacciato, che le buttava fuori a bella posta, quelle massime, tanto per essere interrotto e guadagnar tempo alle sue faticose invenzioni.

      – Questa non sarebbe giustizia; – rispose egli poscia ad alta voce, – e voi non vorrete dannarmi prima che sia finita la storia. Ora la mia storia dice che Alboino… cioè, messere Alardo d'Anglona… anzi, no, volevo dire Laurent di Sauvaine, fosse stato colto ad un agguato tesogli dal suo nemico e chiuso per comando di questi in un carcere donde non avrebbe potuto toglierlo se non un altro e più possente barone, come il signore d'Anglona. Ma il siniscalco, già ve lo dissi, non pensava all'amico Sauvaine, e questi sarebbe rimasto anco un mese senza comparirgli dinanzi, che egli, immerso com'era nelle delizie della corte, non si sarebbe pur ricordato di lui, non avrebbe pur chiesto a sè stesso: che diamine è egli avvenuto del nostro Sauvaine? Per fortuna, Percivalle vegliava, e saputo del caso del cavaliere di Sauvaine,


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