Il ponte del paradiso: racconto. Barrili Anton Giulio

Il ponte del paradiso: racconto - Barrili Anton Giulio


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ai suoi occhi medesimi. Così, grandemente soddisfatto di sè, dormì quella notte veramente di gusto, sognando di aver tutti dalla sua, la signora Eleonora e il banchiere Anselmo, e di unire in matrimonio quell'angelo della signorina Margherita col suo caro Filippo, col suo dolce pupillo, col suo fratello minore.

      Lo incontrò il giorno dopo, tra il tocco e le due, presso la Torre dell'orologio, mentre egli, ritornato da far colazione, rientrava al suo banco. Filippo Aldini era solo.

      – Oh, bravo! – gli disse. – Ho il piacere di combinarti. E i tuoi amici di Verona?

      – Li ho lasciati poc'anzi; – rispose Filippo. – Sono andati a fare il giro del Canale, che iersera arrivando non hanno potuto godere. Quanto a me, capirai, dopo tanti anni di barchettate…

      – Hai l'acqua fino alla gola, t'intendo; e li hai lasciati andar soli, per rivederli più tardi?

      – Sì, abbiamo preso appuntamento per le quattro; – disse Filippo.

      – Se credi, – ripigliò Raimondo, – puoi condurli questa sera da noi. I tuoi amici sono i nostri.

      – Grazie, no, grazie; – rispose prontamente Filippo. – Per dirti il vero, sono un po' orsi.

      – Ufficiali di cavalleria, – notò Raimondo stupito, – commilitoni tuoi, e tanto diversi da te? Basta, non insisterò; tu devi sapere ciò che è più conveniente. Parliamo di ciò che importa. Sei libero?

      – Sì, fino alle quattro, ti ho detto.

      – Bene; allora accompagnami al banco. Si discorre male, per via. —

      L'Aldini capì benissimo dove Raimondo volesse andare a parare, e si adattò a seguirlo. Del resto col suo prepotente amico non si poteva fare altrimenti.

      Come furono al banco Zuliani, e ben chiusi nello studio di Raimondo, questi incominciò allungando la mano sulla scrivania, e facendo scivolare verso l'Aldini una scatola di lacca giapponese, aperta, e piena di spagnolette. La seduta voleva esser lunga.

      – Siedi, mio caro; – disse Raimondo. – Qui sono Tokos, Giubbeck, Delizie del Serraglio, ecc., ecc. “Scegli qual più t'aggrada„.

      – No, grazie, non fumo; – rispose Filippo. – Ma tu hai da dirmi…

      – Oh, tante cose. E prima di tutto ho da chiederne una a te. Come sei rimasto contento ieri mattina del tuo ufficio di accompagnatore?

      – Contento? di un dovere compiuto? – disse Filippo. – È così semplice, poi. In gondola, quattro chiacchiere senza costrutto, molti elogi alla tua cena sontuosa; e finalmente, alla Riva degli Schiavoni, ossequj e riverenze.

      – Nient'altro?

      – Nient'altro.

      – Male; – conchiuse Raimondo. – Avevi da promettere una visita, chiedendo se le signore avevano bisogno di te, per qualche gita qua e là, che tu saresti stato felicissimo di metterti a loro disposizione. Ma che razza di cavaliere mi sei tu diventato?

      – Hai ragione, dovevo pensarci. Ma che vuoi? Questo costume di buttarmi avanti, io non l'ho avuto e non l'avrò mai; colle signore Cantelli, poi, meno che mai.

      – E perchè, di grazia, perchè con esse meno che con altre? Avevi pur cominciato, se non a buttarti avanti, come tu dici, a fare almeno qualche atto di servitù!

      – Vero; – disse Filippo. – Eri tu che mi avevi messo dentro; ed io mi sono trovato al laccio senza volerlo; ma poi ho pensato… ho pensato che non dovevo continuare, che non potevo restare in quell'ufficio di accompagnatore eterno, senza lasciar credere alla gente, e prima di tutto alle signore Cantelli, di averci le mie ragioni particolari… M'intenderai, senza che io te ne dica di più.

      – È un buon sentimento; – concesse Raimondo. – Ma non bisogna esagerarlo. Sentimi, caro; perchè tu ami la signorina Margherita…

      – Non ho confessato questo; – interruppe Filippo.

      – Ma va da sè. Come puoi non amarla? Come si può non amarla?

      – Sentimento generale, allora; – rispose Filippo. – È dunque molto generico, e impegna poco.

      – No, caro; – riprese Raimondo. – Tutti debbono amarla, vedendola; ma uno è destinato ad amarla per tutti, avendo occasioni di avvicinarla, e ragioni di piacerle. Sei tu, assassino, del “non c'è male„, sei tu che la fortuna ha privilegiato; sei tu che hai ricevuto il colpo mortale. Tu dunque l'ami, è valuta intesa. Ma se te lo leggo in faccia! Sei tanto turbato a sentirne parlare! —

      Filippo chinò la fronte, confuso. Troppo bene l'amico gli aveva letto negli occhi, meglio che non s'immaginasse egli stesso.

      – Ma ti ho già detto che non voglio essere sospettato; – rispose Filippo dopo un istante di pausa. – Quella donna, se fosse vero quello che tu pensi di me, sarebbe sempre troppo ricca.

      – Non c'è altro? – disse Raimondo.

      – Mi pare che basti.

      – E tu non potrai chiedere la sua mano, capisco. Ma se un altro la chiedesse per te? Io, per esempio. —

      A quella uscita improvvisa, l'Aldini balzò sulla scranna.

      – Spero bene che non lo farai; – diss'egli concitato.

      Ma quell'altro non si scompose punto; anzi, guardando placidamente in viso l'amico, ripigliò:

      – E se lo avessi già fatto?

      – Tu? – gridò Filippo, impallidendo.

      – Io, sì; che ci trovi di strano? Più strano fu il tuo “non c'è male„, mentre io avevo avuto il piacere di vederti così animato nella tua conversazione con quella cara fanciulla. —

      Infastidito da quel ricordo, e da altri ancora, Filippo Aldini crollava il capo e batteva le labbra.

      – Rinfacciami sempre una frase disgraziata! – diss'egli. – Dovevo rispondere che è un sole? che è un angelo?

      – Eh, perchè no? L'avevo ben detto io, che pure amo mia moglie, e non conosco altra donna da metterle in paragone; potevi dirlo tu, che sei libero. —

      Filippo rimase un tratto in silenzio, cercando argomenti che non volevano lasciarsi trovare. Infine, di guerra stracco, girò di fianco il punto difficile, ritornando alla sua prima linea di difesa.

      – Sei curioso, col tuo modo di ragionare! – riprese. – Orbene, se pure avessi pensate tutte quelle belle cose, dovevo io dirle, lasciando scoprire Dio sa che orgogliose intenzioni? Dovevo in quella vece pensare che sarebbe stato un errore avanzarmi nella regione dei sogni. E mi son castigato, se mai, di un sogno pazzo, come quello che tu vorresti fare per me. Ma ti pare? Io, non sospettato finora, non sospettabile di calcoli così vili?.. Dunque ti prego, Raimondo, non mi parlar più del tuo sogno, e tralascia i buoni uffici che vorresti fare per me.

      – Ti ho detto che ho già aperto il fuoco.

      – Con lei?

      – Con lei, no, con sua madre. Ma, per quello ch'io ne so, dev'essere tutt'uno.

      – Tutt'uno! Che cosa ne sai?

      – Questo, che la signora Eleonora ti vede di buon occhio, e ti stima moltissimo; intendi? moltissimo; è stata la sua parola. E aggiungo che la signorina Margherita ti ha lodato come un cavaliere compito, il primo ch'ella abbia ancora conosciuto, per ingegno, per cultura, per serietà, per buon gusto; e ti fo grazia del resto. —

      Filippo si era lasciato andare, come sfinito, contro la spalliera della scranna; aveva arrovesciato il capo, e ad occhi chiusi meditava. Che cosa? Forse le parole di Margherita; forse la gravità del suo caso. Ah, quel prepotente Raimondo! faceva come voleva, senza chieder permesso, senza avvisare, e metteva lui negl'impicci.

      Intanto, il prepotente Raimondo proseguiva la sua narrazione.

      – Tornando alla signora Eleonora, le ho parlato a cuore aperto, esponendole la mia idea. S'intende che non potevo


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