Il ponte del paradiso: racconto. Barrili Anton Giulio

Il ponte del paradiso: racconto - Barrili Anton Giulio


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successione, restava appena una tenuta dell'alto Parmigiano, senza ipoteche, grazie al cielo, e che poteva rendere ancora un anno per l'altro le sue ottomila lire. Mettiamo tra restauri e miglioramenti un migliaio di lire: un altro migliaio all'agente, incaricato di riscuotere e di trasmettere; ne avanzavano ancora seimila. Solo com'era, modesto nelle abitudini, temperato nei desiderii, con seimila lire d'entrata poteva campare. Il vivere non era caro a Venezia; ed egli, poi, rinunziava necessariamente al cavallo. La sua esistenza trascorreva placida in apparenza, uniforme e cheta nei suoi andamenti, come una gondola sull'acque morte della Laguna. Giovine di bell'aspetto, intelligente, garbato, serio e discreto, piaceva alle donne, e non dava sui nervi agli uomini come tanti farfalloni vanagloriosi. Aveva le sue rimesse da Parma, pagabili presso il banco Zuliani, e da questa circostanza era nata la sua relazione con Raimondo, che aveva preso a volergli bene assai presto. L'amicizia è come l'amore; nasce come e quando le pare. Del resto, così serio e garbato com'era, l'Aldini non poteva non piacere a Raimondo, che se ne fece tosto un amico, e a breve andare un compagno inseparabile. Raimondo Zuliani aveva l'animo aperto e schietto; quando si dava, si dava intiero. Per contro, aveva l'amicizia invaditrice; l'amico era la cosa sua; se avesse potuto, ne avrebbe fatto il suo schiavo; per intanto lo considerava come il suo alunno, il suo pupillo, il suo fratello minore, a cui egli dovesse dar consiglio, indirizzo, protezione efficace.

      Con questo suo modo d'intendere l'amicizia, non poteva certamente piacergli molto che l'amico suo, così ricco di belle doti, e così intelligente, non facesse nulla, non si occupasse utilmente di nulla. Filippo Aldini passava, sì, alle volte, qualche ora a dipingere, cieli e marine, casupole e barche di pescatori, su tavolette alte una spanna e larghe in proporzione; un grazioso talento, quello, per farsi merito con qualche famiglia di amici e di conoscenti, che gradisse il presente del bozzettino; ma ci voleva ben altro che quattro fregacci, tirati giù a punti di luna, per diventare un pittore, e metter l'arte a profitto. Leggeva, più spesso, leggeva anzi ogni giorno, riviste, trattati scientifici, romanzi e viaggi; ma a che gli serviva tutto ciò? Leggere le pubblicazioni più recenti, tenersi al fatto delle novità intellettuali, è una bellissima cosa, ma non può dirsi un lavoro; ci si nutre lo spirito, non ci si guadagna un soldo, e troppi se ne buttano via dal libraio. Raimondo Zuliani, che sapeva spendere, aveva anche imparato a guadagnare, e non ne perdeva mai l'uso.

      Ma infine, egli faceva il banchiere, e i suoi cominciamenti erano stati modestissimi. Poteva forse applicare la sua regola al caso di Filippo Aldini? Anch'egli, finalmente, senza avvedersene, o senza scandalizzarsene troppo, cedeva all'autorità della massima volgare, che un nobile, barone o conte, marchese o duca che sia, non è tagliato pel lavoro fruttifero. Va bene che il lavoro nobilita; ma ciò significa che il lavoro è fatto per chi non è nobile ancora, potendo per contro levare la nobiltà, o per lo meno offuscarla, a chi già la possiede; ragionamento che va, o par che vada, a filo di logica, e non fa neanche una grinza.

      Un'altra considerazione più seria aveva persuaso Raimondo, chetati i suoi dubbi, i suoi timori di fratello maggiore. Solo al mondo, e modesto nelle sue abitudini, con quelle seimila lire nette all'anno, l'amico suo poteva vivere e fare in società una discreta figura. Non giocasse; era il punto essenziale. Ma l'amico suo aveva in orrore le carte. Così il fratello maggiore uscì d'apprensione, e non pensò più alla utilità d'un proficuo lavoro; egli intanto mulinava altri disegni. Con quella gioventù, con quella bella presenza, con quel titolo, poi, con quel titolo, destinato ad avere il suo valore, specie se titolo autentico, non derivato dal motu proprio di chi ne fa pompa, non c'era caso che Filippo Aldini facesse un bel matrimonio, un matrimonio brillante? Il matrimonio brillante è quello in cui da una delle due parti entrano molti quattrini, a fortificare l'alleanza dei cuori. Raimondo Zuliani, che per sè non aveva preso un soldo di dote, ragionava così per una volta tanto, seguendo l'opinione dei più. Finalmente, si trattava della felicità di Filippo, del suo inseparabile amico, del suo fratello minore; senza contare poi questo, che, felice egli stesso nel matrimonio, avrebbe ammogliato l'universo mondo.

      Ma dov'era la ricca erede da gittar nelle braccia del suo carissimo Aldini? Non la trovava lì per lì da nessuna parte, e molto meno a Venezia. Qualche grosso patrimonio esisteva ancora sulle Lagune, specie nel ceto patrizio, e le ragazze con una dote vistosa, o con vistose speranze, non ci mancavano davvero. Ma c'era un guaio, che alla perspicacia di Raimondo non doveva sfuggire. Si poteva egli credere che le famiglie patrizie, dai nomi illustri, risalenti alla “Serrata del Gran Consiglio„, sentissero il gusto di rinunziare alle alleanze tra loro, e il bisogno di accettare un “conte di terraferma„ con seimila lire d'entrata? Non di là, dunque, non di là, bisognava orientarsi, e molto saviamente Raimondo ne aveva smessa l'idea.

      La sposa, per quel conte, doveva venir di lontano alla sua immaginazione sempre sveglia; e doveva venire dopo due anni d'attesa, due anni che infine gli erano serviti per conoscer meglio l'Aldini e per stimarlo di più; tanto in quei due anni l'amico suo aveva guadagnato ancora in serietà, rompendola asciuttamente con certe galanterie da vagheggino, e a grado a grado liberandosi da tanti perditempi del suo primo anno di vita veneziana. Ah, quella figliuola del suo collega di Milano; altro che dote patrizia! E dote e spillatico, e grandi speranze in vista; ci aveva da esser tutto senza risparmio. Il banchiere Anselmo era uomo da milioni; poteva guadagnarne ancora, sebbene avesse ristretta di molto la sua cerchia d'affari; ma appunto perchè l'aveva ristretta, non c'era da temere che ne perdesse. E infine, soltanto tra due figliuoli, Federigo e Margherita, andava spartito il suo patrimonio.

      Ed era bella, Margherita, il che non doveva guastare; e dotata di un carattere d'oro, senza ombra di vanità, nè d'orgoglio per la bellezza sua, o per le ricchezze della sua casa. Se si fosse potuto combinare! E perchè no? Il banchiere Anselmo era venuto su quasi dal nulla; sua moglie del pari; e formavano una coppia virtuosa, a cui la ricchezza era stata una giusta ricompensa, ma non aveva offuscato il sentimento delle sue modeste origini. Se nutrivano ambizioni, queste potevano risguardare soltanto i loro figliuoli; e già se ne scorgeva un indizio nella carriera scelta da essi per Federigo. E per Margherita? Un titolo, senza dubbio, sarebbe andato benissimo, accompagnato a quel fiore di bellezza e di grazia. E il giovane che portava quel titolo, apparteneva ad una nobiltà di vecchia data; non era neanche un pezzente; non era un vizioso, ma un gentiluomo e un galantuomo a tutta prova. Come avrebbe detto di no il signor Anselmo, trovando un partito sotto ogni aspetto così conveniente? e soprattutto quando la signorina Margherita vedesse di buon occhio il conte Aldini? Ora, di questo il signor Raimondo non dubitava neanche. Gli dava noia piuttosto di non aver pensato prima a quella stupenda occasione, col rischio di lasciarsela sfuggire di mano. Ma a farlo a posta, non che sfuggirgli, l'occasione era venuta incontro al suo desiderio. Bisognava agguantarla pel ciuffo; e Raimondo era stato pronto ad allungare la mano.

      Così, senza dir nulla ad alcuno, lasciando che ogni cosa andasse da sè, come l'acqua per la sua china, Raimondo aveva condotto all'albergo Danieli il conte Filippo Aldini, presentandolo come il suo migliore, anzi l'unico amico, quasi un altro sè stesso, alle signore Cantelli. Il giovinotto era stato ricevuto benissimo, con un fare alquanto impacciato, ma con evidente bontà, dalla signora Eleonora; con grazia semplice e schietta dalla signorina Margherita. Il discorso, naturalmente, era caduto sul gran numero di belle cose che c'erano da vedere a Venezia. E perchè la signora Eleonora aveva accennato ad una fermata piuttosto lunga, più che giustificata dal desiderio di trattenersi quanto più potesse col suo Federigo, il quale tra non molto doveva imbarcarsi per un viaggio assai lungo, il conte Aldini si prese amabilmente la briga di stendere a voce una specie di elenco, distribuito per settimane, delle gite che la signorina Margherita avrebbe potuto fare, osservando, senza troppo stancare la mamma, tutto ciò che offriva Venezia allo studio di una viaggiatrice tanto intelligente, e capace di gustare ogni cosa notevole nella storia, nell'arte, ed altresì nell'industria paesana. Questa, infatti, non andava trascurata, poichè l'industria era in Venezia una cosa tutta particolare, ed artistica al sommo.

      E l'aveva tenuta a lungo sospesa alle sue enumerazioni, inframmezzate di giuste considerazioni, di sentenze argute o profonde, passando dall'industria antica alla moderna, che rinnovellava le bellezze dell'antica, ai musaici del Salviati, ai vetri filati di Murano, ai merletti policromi dello Jesurum. Raimondo, nell'atto di discorrere colla signora Eleonora, gongolava in cuor suo di sentire i due giovani chiacchierare con tanta animazione, come se già si conoscessero da un anno.

      – Ed ora, – pensò egli, – il giovinotto farà la sua corte. Già, la paglia,


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