Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I. Botta Carlo

Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I - Botta Carlo


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la grazia del popolo a diminuzione dell'autorità regia, passò ben a ragione ad abbominare con pubbliche scritture, e con parole infiammative le incarcerazioni arbitrarie; poi statuì, annuendo ad una convocazione degli stati generali, non essere in facoltà sua, nè della corona, nè di tutti due uniti insieme trar denaro dal popolo per via di tasse; la sola volontà del re non bastare a far la legge, nè la semplice espressione di questa volontà poter constituire l'atto formale della nazione; essere necessario, a volere che la volontà del re debba trarsi ad effetto, ch'essa sia pubblicata secondo le forme prestabilite dalla legge; tali essere i principj, tali i fondamenti della constituzione francese; sapere il parlamento, che si volevano sovvertire i diritti pubblici per stabilire il dispotismo; la libertà comune essere in pericolo; ma non volere, nè potere a tali rei disegni dar la mano, anzi volere opporsi, nè mai permettere che gli essenziali dritti dei sudditi fossero conculcati e messi al fondo: poi rivoltosi al re, gli intimò, non isperasse di poter annullare la constituzione, concentrando il parlamento nella sola sua persona.

      Rispose risentitamente il re, che quello che s'era fatto, s'era fatto secondo gli ordini fondamentali dello stato; non s'intromettessero in affari di governo, perchè di ciò non avevano autorità di sorte alcuna; ch'erano i parlamenti del regno di Francia corti di giustizia abili solo a giudicare in materie civili e criminali, ma non avere autorità nè legislativa, nè amministrativa; la volontà del re non potersi senza pericolo, nè senza un nuovo e funesto cambiamento nella constituzione del regno soggettare a quella dei magistrati; se ciò fosse, cambierebbesi la monarchìa in aristocrazìa di magistrati, badassero a far il debito loro come giudici, e lasciassero il governo delle cose pubbliche a chi per antica consuetudine e per costituzione l'aveva in mano; considerassero quante leggi erano state fatte in ogni tempo dai re di Francia, non solo senza il consenso, ma ancora contro la volontà dei parlamenti; la registrazione non essere approvazione, ma solo autenticazione, nè altro in questo fare i parlamenti, che le veci di notari del regno; che quest'erano le forme, questi i precetti ai quali e' si dovevano conformare, e se nol facessero, sì gli costringerebbe.

      Tal era la contesa nata in Francia fra il re ed i parlamenti circa le prerogative e l'autorità della corona. Intanto ogni pubblico affare era soprattenuto, perchè i parlamenti di provincia, come quello di Parigi o avevano cessato di per se stessi l'ufficio, o erano dall'autorità regia sospesi. Volle il re rimediare con la creazione della corte plenaria, ma proruppe il parlamento in un'asprissima protesta: protestarono i pari del regno, il clero stesso titubava.

      Intanto uomini faziosi di ogni genere o stimolati espressamente dai capi della parte dei parlamenti, o valendosi acconciamente della occasione offerta dalla resistenza loro per macchinar novità, andavano spargendo in ogni luogo semi di discordia e di anarchìa. Tumultuavasi a Grenoble, a Rennes, a Tolosa, ed in altre sedi di parlamenti; orribili scritture uscite in Parigi chiamavano tiranno il re, distruttore dei diritti del popolo, oppressore crudelissimo; esortavansi le genti a levarsi, a disvelare, e punir gli oppressori.

      Avendo il re trovato in vece d'appoggio, opposizione e resistenza nei parlamenti, nella nobiltà, ed in una parte del clero, dovette necessariamente voltarsi verso il popolo, e fondar l'autorità sua sulla potenza dei più, giacchè i pochi l'abbandonavano. Così era fatale, che le prime occasioni delle enormità che seguirono, siano state date da coloro ai quali più importava di evitarle, e che ne furono alla fine le miserabili vittime. Adunque fu chiamato ministro il Ginevrino Necker, e con lui altri personaggi consentanei al tempo. Si sperava bene, il popolo esultava. Convocaronsi i notabili del regno, convocaronsi gli stati generali. Prevalse in sul bel principio la parte popolare, siccome quella, in favor della quale operavano i tempi. Decretossi dapprima, del qual consiglio fu autore Necker, fosse doppio il numero dei deputati del terzo stato; poi sedessero i tre ordini, non separatamente, ma in comune; poi si deliberasse, non per ordini, ma per capi, il che diede del tutto la causa vinta ai popolari. Gli ordini uniti presero il titolo di assemblea nazionale. Erano portati al cielo: non si parlò più dei parlamenti, quantunque eglino con opportune scritture si fossero sforzati di riguadagnarsi quel favore, che per un nuovo empito popolare si era voltato all'assemblea.

      L'assemblea nazionale, ottenuta la superiorità del terzo stato, abolì l'inequalità delle imposte, poi i privilegi della nobiltà, poi quelli del clero, poi la nobiltà ed il clero; ed aboliti la nobiltà ed il clero, s'incamminava ad indebolire talmente l'autorità regia, ch'ella non fosse più che un'ombra vana. Il benefizio dell'equalità era solamente apprezzato dai buoni; i tristi usavano la occasione dell'indebolimento del governo. I faziosi dominavano: l'autorità regia non gli poteva frenare, perchè scema di potenza e d'opinione; l'autorità popolare non ardiva, perchè parlavano in nome, ed in favor del popolo. In ogni luogo sedizioni, incendj, e rapine; morti funeste, e modi di morte più funesti ancora: uomini mansueti divenuti crudeli; uomini innocenti cacciati dai colpevoli; uomini benefici uccisi dai beneficati. Virtù in parole, malvagità in fatti. Novelle strane si spargevano ogni giorno; e quanto più strane, tanto più credute, e tosto si poneva mano nel sangue, o ad ardere i palazzi; nè il sesso, nè l'età si risparmiavano; ad ogni voce che si spargesse, il popolo traeva, massime in Parigi. In mezzo a tutto questo atti sublimi di virtù patria, e di virtù privata, ma insufficienti pel torrente insuperabile, e contrario. Nè si vedeva fine agli scandali, perchè l'argine era rotto, e fin dove avesse a trascorrere questo fiume senza freno, nissuno prevedeva.

      In fine dopo molti e varj eventi, l'assemblea con una cotal constituzione, che teneva poco del regio, meno ancora dell'aristocratico, molto del democratico, rendè il re un nome senza forza; poi venne l'assemblea legislativa, che il depose; poi il consesso nazionale, che l'uccise. Intanto uccisi o intimoriti i buoni, impadronitisi della somma delle cose i tristi, la nazione francese, non trovando più riposo in se stessa, minacciava, qual mare ingrossato dalla tempesta, di uscir dai propri confini, e di allagare con rovina universale l'Europa.

      A tali accidenti di Francia cadevano nelle menti degli uomini negli altri paesi di Europa varj pensieri. Da principio quando solo si trattava dell'opposizione nata fra il re ed i parlamenti, era sorta un'aspettazione tuttavia scevra da timore. Ma quando vi si aggiunsero le insolenze popolari, le rapine e le uccisioni continue, quando si distrussero, e più ancora quando si schernirono i dritti, sopra i quali erano fondati gli ordini delle monarchìe d'Europa, quando s'insultò il re, quando mani scellerate cercarono la regina per ucciderla, cominciò alla meraviglia a mescolarsi il timore. Finalmente quando alle incredibili enormità si arrosero quelle compagnie raunate in Parigi, ed affratellate in tutta la Francia, le quali apertamente dichiaravano volere, con portar la libertà, come dicevano, fra gli altri popoli, distruggere i tiranni (chè con tal nome chiamavano tutti i re) il timore diventò spavento. Veramente uomini a posta scorrevano la Germania, massime i Paesi Bassi, e pretendendo magnifiche parole a rei disegni, insidiavano ai governi, ed incitavano i popoli a cose nuove: si temeva che per le sfrenate dottrine tutte le province s'empissero di ribellione. Si aveva anche in Italia avuto odore di tali mandatarj, i sospetti crescevano ogni giorno. Dava ancora maggior fondamento di temere il sapersi, che si trovavano in tutti i paesi non solo uomini perversi, i quali pei malvagi fini loro desideravano far novità nello stato, ma ancora uomini eccellenti, che levati a grandi speranze dalle riforme già fatte in quei tempi dai principi, e credendo potersi dare una maggior perfezione al vivere civile, non erano alieni dal prestar orecchie alle lusinghevoli parole. Il pericolo si mostrava maggiore in Germania ed in Italia per la vicinanza dei territorj, per la facilità e la frequenza del commercio con la Francia, e per la comunanza delle opinioni.

      Tale era la condizione dei tempi; e per dar principio a favellare dell'Italia, il re di Sardegna, trovandosi il primo esposto, per la prossimità dei luoghi, a tanta tempesta, aveva più che ogni altro principe, cagione di pensare a provveder al suo stato. Del che tanto maggior necessità il premeva, che non gli era nascosto, che nella parte de' suoi dominj posta oltre l'Alpi, le nuove opinioni s'erano largamente sparse, e ch'ella poco attamente si poteva difendere dagli assalti Francesi, quando si venisse a rottura di guerra con la Francia. Sapeva di più, che i suoi stati erano principalmente presi di mira da quella compagnia di propagatori di scandali, che s'era unita in Parigi, secondochè sfacciatamente uno di loro favellando in pubblico aveva predicato.

      Per la qual cosa, veduto il pericolo imminente, coloro, i quali reggevano i consigli della corte di Torino, ristrettisi con gli ambasciadori e ministri degli altri principi d'Italia, rappresentarono loro, che i casi avvenuti nel desolato reame di Francia davano


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