Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I. Botta Carlo
era diventata eccessiva, estendendosi anche a certi fini, che toccano la radice del governo, e ciò non senza pericolo dello stato; poichè se è necessario allettar gli uomini con l'amore, è anche necessario frenargli col timore, più potendo in loro l'ambizione e l'altre male pesti, che la gratitudine.
In tale disposizione di animi non solo erano divenuti, più che non fossero mai stati, odiosi i residui degli ordini feudali, ma ogni leggier freno, che dal governo venisse, era riputato duro e tirannico. Da questo procedeva, che con riforme utili si desideravano anche riforme disutili, o pericolose.
Queste opinioni recavano possente incentivo da quelle, che s'erano formate e sparse ai tempi dell'ultima guerra d'America, sì opportunamente intrapresa, e sì generosamente condotta dalla Francia: esser doni volontarj le contribuzioni dei popoli, dover essi e della necessità loro, e della quantità giudicare, esser la nobiltà non necessaria, anzi pericolosa allo stato, il re capo, non sovrano, il clero consiglio, non ordine, e richiamavanlo alla semplicità antica; la religione dover esser libera. A questo aggiungevasi una tale tenerezza per gli oppressi, che se mancavano i veri, si cercavano i supposti per isfogar la piena di tanto amore; poichè ogni punito ed ogni imposto riputavansi oppressi, ed un gran di sale, che si pagasse, faceva sì che si gridava tirannide. Le ambizioni si mescolavano alle dolci affezioni, ed alcuni fra i popolani, vedendosi favoriti dall'opinione, volevano diventar potenti con salire alle dignità, ed alle cariche dello stato.
Quest'erano le improntitudini popolari; ma la ferita era anche più grave, e più dentro penetrava nelle viscere dello stato; conciossiachè coloro fra i nobili, che avevano militato in America, eransi lasciati ridurre sì per l'esempio, e sì ancora sospinti da una illusione benevola, credendo che un'Americana pianta potesse portar buoni frutti in un terreno europeo non adatto ad opinioni più favorevoli ai popoli, che alla corona; ed oltre alla equalità dei dritti, desideravano l'introduzione di qualche ordine popolare nell'antica constituzione del regno. Piacevano loro le forme della constituzione d'Inghilterra. Ciò mise discordia fra la nobiltà, poichè alcuni fra i nobili opinavano per le novità, alcuni per le antiche cose, e così s'indeboliva questo propugnacolo della corona in un tempo in cui ella ne aveva più bisogno.
Ma i più fra coloro dei nobili, che o per coscienza, o per interesse perseveravano nelle massime antiche, e rimanevano fedeli alla corona tale quale era durata da tanti secoli, davano novella forza, certo per orgoglio mal misurato, alla potenza popolare che sorgeva; imperciocchè e più insolenti si mostravano nelle ville e castelli loro, e più duramente esigevano gli abborriti dritti feudali, credendo con maggior forza doversi tener quello, che si temeva di perdere. Ciò tanto maggiormente si osservava, e tanto maggior odio creava, che quella parte dei nobili che inclinavano a novità, avevano i medesimi ordini o intieramente dismessi, o grandemente moderati, ed i restanti con molta mansuetudine riscuotevano. L'odio saliva alla corona, perchè questi nobili arroganti erano appunto quelli, che facevano maggior dimostrazione in favore delle prerogative, e della potenza regia.
Nè queste erano le sole cagioni di novità. Certo è, che i vizi maggiormente allignano fra i grandi che fra il popolo, tale essendo la natura umana, che tanto più si corrompe, quanto ha più modi di corrompere e di corrompersi; nè bastano le gentili dottrine a raffrenar quest'impeto, poichè esse meglio servono di scusa che di freno. Quindi era sorta fra i ricchi una tale dissolutezza di costumi, che ne fu tolto alle persone loro quel rispetto, che già aveva tolto ai loro dritti l'opinione. L'ozio, il lusso, i piaceri lascivi, i piaceri infami erano giunti al colmo; nè alcuno era contento alla condizione sua, che, nata l'ambizione, niuno voleva stare, ognuno voleva salire, ed ogni modo era riputato buono, o di pecunia accattata che si fosse, e di meretrice compra, o di bugia, o di calunnia. Tanta era stata la mala efficacia dei tempi della reggenza! Il vizio s'era introdotto nella corte stessa, nè bastava, non dirò a sanar gli animi, ma a contenerli, l'esempio del re, per verità di costumi integerrimi. Ma siccome i popoli credono che le corti s'informino sul modello dei re, così i Francesi vedendo una corte scostumata, rimettevano ogni giorno più di quell'amore, che in tutti i secoli hanno portato ai re loro.
Il perverso influsso era tale, che ne furono contaminati anche coloro, che dovrebbero avere in se più di sacro e di venerando. L'alto clero, posto da Dio per esempio e per modello ai fedeli, era diventato scandaloso per ogni sorte di corruttela. Non pochi fra i prelati, abbandonate le sedi e gli ovili loro, se ne givano a Parigi per ivi far opera a diventar ministri, o mostra di ozio, di lusso e di lussuria; nè era raro il vedere ecclesiastici di primo grado fare o i dottori politici, o i corteggiatori di dame nelle conversazioni sì pubbliche che private; e tra di loro alcuni, poste le mani violentemente nel proprio sangue terminarono una vita infame con modo ancor più infame. In mezzo a tutto questo scemava fra i popoli il rispetto verso la religione, ed è una fra le tante maraviglie di questi tempi strani, che i vizj dei prelati tanto e forse più abbiano contribuito all'incredulità del secolo, che gli accagionati filosofi con gli scritti loro; poichè, se questi davano gli argomenti, quelli davano la materia. In tal modo la potenza separatasi prima dalla virtù, separossi anco dal rispetto, suo principal fondamento; la virtù medesima sbandita dalla città e dalle curie, ricoverossi fra i modesti presbiterj dei parochi, e fra gli umili casolari dei contadini. Dal che ne nacque più forza alla potenza popolare; perciocchè credessi là esser la buona causa, dov'era la virtù, e la cattiva, dov'era il vizio.
A questo si aggiungeva, che a gran pezza l'entrata non pareggiava l'uscita dello stato, deplorabil frutto dei concetti smisurati di Luigi decimoquarto, del voluttuoso vivere di Luigi decimoquinto, e del profuso spendere della corte di Luigi decimosesto, ancorchè questo principe se ne vivesse per se molto parcamente. Questo difetto nell'entrata era giunto a tale sul finire del 1786, ch'era per nascere una gran rovina, se presto non vi si rimediava.
In cotal modo scomposte le cose, passata la forza dell'opinione dai nobili ai popolani, dai ricchi ai poveri, dai prelati ai curati, e mancato il denaro, principal nervo dello stato, si vedeva, che ove nascesse un primo incitamento, un grande sovvertimento sarebbe accaduto. Nè la natura del re dolce e buona era tale, che potesse dare speranza di potere o allontanare o indirizzare con norma certa, ed a posta sua gli accidenti che si temevano.
Qui nacque un caso degno veramente di eterne lagrime, e pur non raro nelle memorie tramandate dagli storici. Tanto è la natura umana sempre più consentanea a se stessa nel male, che nel bene, e tanto sono cupe le ambizioni degli uomini. Volevasi da tutti, come opinione portata dai tempi, e come cosa utile e giusta, una equalità civile, una equilità d'imposte, una sicurezza delle persone, una riforma negli ordini giudiziali, una maggior larghezza nello scrivere. Era il re inclinato ad accomodar le cose ai tempi, per quanto la prudenza, e le prerogative della corona tanto salutari in un reame vasto, ed in una nazione vivace e mobile, il comportassero. Ma la setta aristocratica, composta principalmente dai parlamenti, dai pari del regno, dai prelati più ragguardevoli, dai nobili più principali, e secondata da un principe del sangue, del quale se fu biasimevole la vita, fu ancor più lagrimevole il fine, preoccuparono il passo, e vollero farsi capi e guidatori dell'impresa. In questo il pensier loro era di cattivarsi con allettative parole la benevolenza del popolo, e diminuire, con l'aumento della propria, l'autorità della corona. Forse i primi e i principali autori di questo disegno miravano più oltre, velando con parole denotanti amore di popolo pensieri colpevoli di mutazioni nella famiglia regnante.
Quale di questo sia la verità, i capi di questa setta si prevalsero molto opportunamente per arrivar ai fini loro di un'errore commesso dal governo, il quale diede occasione alla resistenza loro, e fu primo principio di quel fatale incendio, che arse prima il nobile reame di Francia, poi propagatosi per tutta Europa, vi trasse tutto a scompiglio ed a rovina. Il re, in vece di cominciar l'opera dalle riforme tanto desiderate dal popolo, poi ordinar le tasse, volle principiare a por le tasse, poi far le riforme. Quindi l'amore cominciò a convertirsi in odio; la setta nemica alla corona se ne prevalse. Adunque avendo egli pubblicato due editti, uno perchè si ponesse una imposta sopra le terre, l'altro perchè si ponesse una tassa sulla carta bollata, il parlamento di Parigi, non solo fortemente protestò, ma ancora più oltre procedendo ordinò, che chiunque recasse ad effetto i due editti, fosse riputato reo di tradimento, e nemico della patria. Quest'era il momento d'insorgere da parte del governo, e di dar forza alla legge, e di aggiungere al tempo stesso qualche editto contenente riforme e giuste per se, e desiderate dal popolo: ciò avrebbe preoccupato il passo. Ma egli, rimettendo dall'opera sua, lasciò andar non eseguiti i suoi