Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I. Botta Carlo

Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I - Botta Carlo


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alcuni particolari motivi, per cui le medesime dottrine, che suonavano parole tanto gradite di libertà e d'indipendenza, fossero dal governo medesimo più volonterosamente ed accettate e difese. Prima però di favellare di queste controversie, fia d'uopo raccontare qual fosse lo stato del regno, e quali le opinioni e le affezioni che vi predominavano, rincrescendoci già fin d'ora, che principii che spiravano umanità e beneficenza, siano stati poi seguitati, per la malvagità dei tempi, dalle più orribili, e lagrimevoli tragedie, di cui ci abbiano gli storici tramandato la memoria. Tanto, o l'ardor del cielo, o l'atrocità delle ingiurie, o il desiderio immoderato della vendetta, o tutte queste cagioni unite insieme fanno trascorrere sempre fino agli estremi le cose in quella parte d'Italia.

      Essendo il re Carlo di Borbone salito sul trono di Spagna nel 1750, cedè il regno delle due Sicilie a Ferdinando Quarto, suo figliuolo secondogenito, constituito allora nella tenera età di nove anni. Creata prima di partire la reggenza, pose per moderatore della giovinezza del nuovo re il principe di S. Nicandro. Questi privo di ogni sorte di lettere, non potendo insegnare altrui quello che non sapeva egli medesimo, insegnò al regio alunno la pesca, la caccia, ed altri cotali esercizi di corpo. Di questi s'invaghì il giovane Ferdinando, che ne prese poscia in tutti i tempi di sua vita grandissimo diletto. Ma crebbe poco instrutto di ciò che importa alla vita civile, ed al governo degli stati. Pure amava chi sapeva, e di consigliarsi con loro. Piacque alla fortuna, qualche volta pure favorevole ai buoni, che a quei tempi avesse grandissima introduzione e principal parte nei consigli napolitani il marchese Tanucci, uomo dotto, di libera sentenza, mantenitor zelante delle prerogative reali, ed avverso alle immunità ecclesiastiche, massime in materie criminali. Dava il re facile orecchio alle parole sue; però il governo del regno procedeva con prudenza e con dolcezza. Speravasi qualche moderazione alla tirannide feudale, che in nissuna parte d'Italia erasi conservata più gravosa, che in quel regno, principalmente nelle Calabrie. I baroni, possessori dei feudi, nemici egualmente dell'autorità regia e del popolo, quella disprezzavano, questo tiranneggiavano. Oltre i soliti bandi della caccia, della pesca, dei forni, dei mulini, essi nominavano i giudici delle terre, essi i governatori delle città; per loro erano le prime messi, per loro le prime vendemmie, per loro le prime ricolte degli oli, delle sete, e delle lane; per loro ancora i dazi d'entrata nelle terre, i pedaggi, le gabelle, le decime, ed i servigi feudatarii. Insomma erano i popoli vessati, l'erario povero, l'autorità regia manca. Sì fatte enormità, tanto discordanti dal secolo, non potevano nè sfuggire a Tanucci, nè piacere ad un re di facile e buona natura. Però con apposite leggi furono moderate. Inoltre Tanucci chiamò i baroni alla corte; il che fu cagione che, raddolciti i costumi loro, diventarono più benigni verso i popoli.

      Quanto agli stati esteri, questo ministro, amico a tutti, pendeva per la Francia: ciò spiacque a Carolina d'Austria, fresca sposa di Ferdinando, donna d'animo imperioso ed aspro. Fu dimesso Tanucci, e surrogati in suo luogo, prima il marchese della Sambuca, poi Acton, uomini di natura consenziente a quella della regina; prevalsero allora le parti d'Austria.

      Pure le salutari riforme si continuarono; parecchi privilegi baronali furono aboliti, i pedaggi soppressi, migliori speranze nascevano dell'avvenire. Gli animi si mostravano disposti. Aveva Filangeri filosofo pubblicato i suoi scritti, nei quali non saprei dire, se sia maggiore la forza dell'ingegno, o l'amore dell'umanità. Erano con incredibile avidità letti, e con grandissime lodi celebrati da tutti. Sorse allora universalmente un più acceso desiderio di veder lo stato ridotto a miglior forma. Volevasi una libertà civile più sicura, una libertà politica maggiore, una tolleranza religiosa più fondata. Nè a questa inclinazione dei popoli contrastava il governo, non ancora insospettito dalla rivoluzione di Francia.

      Nel regno di Napoli specialmente più si desideravano le riforme, perchè più erano necessarie, e maggiori radici avevano messe le generose dottrine, massime fra i legisti. Gran confusione ancora era nelle leggi: vivevano tuttavia quelle degli antichi Normanni, viveano quelle dei Lombardi, nè le leggi dei due Federici, nè le aragonesi, nè le angioine, nè le spagnuole, nè le austriache erano del tutto dismesse. Quindi niun diritto in palese, nè niuna lite terminabile. La gravità del male faceva più desiderare il rimedio, principalmente negli ordini giudiziali, per le dette ragioni imperfettissimi.

      Ma queste cose meglio si conoscevano per dottrina che per esperienza; desideravasi qualche saggio pratico dell'utilità loro. Aveva il re, mentre viaggiava in Lombardia, visitato le cascine, per cui tanto sono celebrate le pianure del Parmigiano, e del Lodigiano. Piacquergli opere tali, ne fondò una a San Leucio, luogo poco distante da Caserta. La colonia cresceva. Gli amatori delle riforme tentarono Ferdinando dicendo, che, poichè era stato il fondatore di S. Leucio, fossene anche il legislatore; l'ottennero facilmente. Statuì il re delle leggi della colonia, per cui venne a crearsi nel regno uno stato indipendente, di cui solo capo era il re. Dichiarossi la colonia indipendente dalla giurisdizione ordinaria, e solo soggetta ai capi di famiglia, ed agli anziani di età; gli atti appartenenti alla vita civile, massime al matrimonio, reggevansi con forme, e regole speciali, ogni cosa in conformità delle dottrine di Filangieri. Con queste leggi particolari prosperava dall'un canto continuamente la colonia, dall'altro il re vieppiù se n'invaghiva, e vedutone il frutto in pratica, diventava ogni dì meno alieno da quei pensieri, che gli si volevano insinuare. Appoco appoco si distendevano nel popolo, ed il desiderio di nuovi ordini andava crescendo, parendo ad ognuno, che quello che per l'angustia del luogo era fino allora utile a pochi, sarebbe a tutti, se con la debita moderazione a tutti si estendesse.

      Questi consigli tanto più volentieri udiva Ferdinando, quanto più coloro che gliene porgevano, erano appunto i più zelanti difensori della autorità e dignità sua contro la corte di Roma. Già s'era Tanucci dimostrato molto operativo in questo negozio delle controversie romane. Già per consiglio suo erasi soppresso il tribunale della nunziatura in Napoli, a cui erano chiamate in appello avanti il nunzio del papa tutte le cause, nelle quali qualche ecclesiastico avesse interesse; fu anche troncato ogni appello a Roma. Pareva in fatti abuso enorme, che un principe forestiero esercitasse giurisdizione, e rendesse giustizia negli stati di un altro principe. Era Tanucci stato anche autore, che la corona di Napoli, e non la santa sede nelle vacanze dei benefizi nominasse i vescovi, gli abbati, e gli altri beneficiati, che la presentazione della chinea il giorno di S. Pietro in una offerta di elemosina si cangiasse, che il nuovo re non s'incoronasse per evitar certe formalità, che si usavano fin dai tempi dei re Normanni, e che la sovranità romana sul regno indicavano. Per consiglio suo medesimamente si era diminuito il numero dei religiosi mendicanti, e soppressa la società di Gesù. Parlossi inoltre di rendere i frati indipendenti dai generali loro residenti a Roma, e d'impiegar una parte dei beni della chiesa per allestir un navilio sufficiente di vascelli da guerra.

      Tutte queste novità non si potevano mandar ad esecuzione senza grandissime querele dalla parte di Roma; infatti elle furono molte. Ma sorsero nel regno molti scrittori a difesa della libertà, e della indipendenza della corona. I fratelli Cestari risplendevano fra i primi; si accostò a loro l'arcivescovo di Taranto. Ma vivi soprattutto si dimostrarono coloro, che desideravano un governo più largo, proponendosi in tal modo, e ad un tempo medesimo di difendere la dignità della corona, e di combattere le prerogative feudali. Ciò andava a' versi a Ferdinando grandemente sdegnato contro Roma; però ogni giorno più si addomesticava con loro, e gli vedeva, e gli udiva più volentieri. S'aggiunse, che Carlo di Marco, uno dei ministri del re, uomo di non poca dottrina, dava lor favore, per quanto spetta alle controversie con Roma.

      Tale era lo stato del regno di Napoli, in cui si vede che i medesimi tentativi si facevano, che nella Lombardia austriaca ed in Toscana circa la disciplina ecclesiastica, ma con maggior ardore a cagione delle controversie politiche con Roma. Rispetto poi alle riforme nelle leggi civili, vi si era anche incominciato a por mano, ma con minor efficacia, perchè Acton non se n'intendeva e ripugnava; la regina, che se n'intendeva, ripugnava ancor essa; ed il re occupato ne' suoi geniali diporti, amava meglio che altri facesse, che far da se. Da ciò nasceva, che gli umori non si sfogavano, ed il negato si appetiva più avidamente.

      La Sicilia, parte tanto essenziale del regno di Napoli, si reggeva con leggi particolari. Da tempi antichissimi ebbe un parlamento di tre camere dette Bracci, ch'erano gli ordini dello stato. Una chiamavasi Braccio militare, o baronale; in questo sedevano i signori, che avevano in proprietà loro popolazioni, almeno di trecento fuochi. L'altra intitolavasi Braccio ecclesiastico; entravano in questo tre arcivescovi, sei vescovi e tutti gli abati, ai quali il re conceduto


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