Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I. Botta Carlo

Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I - Botta Carlo


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città che non appartenevano ai baroni, e che demaniali si chiamavano; cioè del dominio del re. Perciocchè due sorte di città avea la Sicilia, baronali, e libere. Le prime erano quelle che stavano soggette ad un barone, le seconde quelle che dipendevano immediatamente dal re, e si reggevano con le proprie leggi municipali. Accadeva spesso, che un solo barone avesse più voti in parlamento, per essere feudatario di più terre. Lo stesso accadeva, e per la medesima ragione, degli ecclesiastici; lo stesso ancora dei deputati delle città, dando più città il mandato ad una persona medesima. Capo del Braccio baronale tenevasi il barone più antico di titolo, dell'ecclesiastico l'arcivescovo di Palermo, del demaniale il pretore della medesima città: adunavasi anticamente il parlamento ogni anno; poi fu fatto quadriennale. Prima di Carlo V faceva le leggi; dopo venne ridotto a concedere i donativi.

      Da questo si vede, che il nervo principale del parlamento siciliano consisteva nei baroni, perchè più ricchi erano, e più numerosi. Ma ben maggior era la potenza loro nelle terre, a cagione dei privilegi feudali. Rimediovvi in parte Caraccioli, vicerè; pure i vestigi feudatarii vi erano ancora gravi. Del resto le opinioni del secolo poco avevano penetrato in quell'isola; ma quello che non dava l'opinione, il potevano dare facilmente gli ordini dello stato.

      Questa che abbiamo raccontata, era la condizione del regno delle due Sicilie verso l'ottantanove; ma poco diversa appariva quella del ducato di Parma e Piacenza, dove come a Napoli, regnava la famiglia dei Borboni di Spagna. Anche in questi luoghi vedevasi sorta una maggior perfezione del vivere civile, e le contese con la sedia apostolica pel medesimo fine delle investiture avevano aperto il campo ad investigazioni a diminuzione dell'autorità romana. Quando l'infante D. Filippo governava il ducato, era in lui grande l'autorità del francese Dutillot, il quale nato di poveri parenti in Baiona, era salito per la virtù sua al grado di primo ministro. Era stato appunto mandalo Dutillot dalla corte di Francia al duca Filippo, acciocchè lo consigliasse intorno agli affari che correvano con la corte di Roma, temendosi che in quella nuova possessione del ducato, ella volesse dare qualche sturbo in virtù dei diritti di superiorità sovrana, che pretendeva in quello stato. Per verità se grande fu la fede che la Francia ed il duca Filippo ebbero in Dutillot, non furono minori la sua destrezza, e la prudenza. Chiamò a se i più famosi ingegni d'Italia, tra i quali non è da tacersi il teologo Contini, uomo dottissimo nelle scienze canoniche, ed il Turchi, cappuccino di molte lettere, di notabile eloquenza, ed amatore delle libertà ecclesiastiche, benchè, fatto vescovo, abbia poi mutato, non dirò opinione, ma discorso; ma tanto per opera di Dutillot si dirozzarono i costumi in quella bella parte d'Italia, e tanto vi prosperarono le buone arti, che il regno di D. Filippo ebbe fama del secol d'oro di Parma. Certo, città nè più colta, nè più dotta di Parma non era a quei tempi, nè in Italia, nè forse anche altrove. Crearonsi, per consiglio del Paciaudi, a questo fine chiamato da Roma, più perfetti ordini nell'università degli studi, un'accademia di belle arti, una magnifica libreria; e perchè con gli ordini buoni concorressero i buoni insegnamenti, ed i buoni esempi, vennervi, chiamati da diversi paesi, oltre Paciaudi, e Contini, anche Venini, Derossi, Bodoni, Condillac, Millot, Pageol. Fra i buoni esempi Dutillot medesimo non era degli ultimi, scoprendosi in lui decoro, facondia, cortesia, e tutte quelle parti che a perfetto gentiluomo si appartengono: arricchivasi al tempo stesso, ed abbellivasi il ducato per manifatture o fondate o ristorate, per edifizi, per strade, per pubblici passeggi. Così passò il regno di D. Filippo assai felicemente sotto la moderazione di Dutillot.

      Morto poi nel 1765 il duca Filippo, e devoluto il ducato nel duca Ferdinando, ancor minore d'età, Dutillot continuò a governar lo stato con la medesima sapienza. A questo tempo sorse una grave controversia tra il governo del duca e la corte di Roma; imperciocchè avendo il duca mandato fuori una sua prammatica intorno alle mani morte, ed un editto, che le obbligava al pagamento delle gravezze pubbliche, il papa Clemente XIII pubblicò in Roma un breve monitorio, con cui dichiarò nulle quelle ordinazioni sovrane di Parma, come provenienti da autorità non idonea a farle, e lesive dell'immunità ecclesiastica, ammonendo eziandio, che tutti coloro, che cooperato vi avevano, erano incorsi nelle censure ecclesiastiche, da cui non potessero essere assolti in nissun caso, eccettuato l'articolo di morte, se non da lui stesso, o dal pontefice, che dopo di lui sulla cattedra di San Pietro sedesse. Dutillot difese con non ordinaria franchezza e prudenza il diritto sovrano del duca, alla quale difesa diedero non poco favore molti scritti pubblicati da uomini dotti in tale proposito.

      Questi accidenti concitarono contro Dutillot l'odio, e l'arti dei papisti già entrati molto addentro nella buona grazia del giovinetto principe. Ciò non ostante in tutto il tempo, in cui questi fu minore d'età, non perdè il ministro dell'autorità sua. Quando poi, giunto all'età di diciott'anni, assunse il governo, s'indrizzarono i suoi pensieri ad altro fine. Perchè congedato Dutillot, il principe si governò intieramente a seconda dei papisti. Il tribunale dell'inquisizione fu instituito in Parma, ma mostrò mansuetudine; nè aspro fu il reggimento del duca; le tasse assai moderate. Era molesto a molti il rigore eccessivo, che si usava per far osservare certe pratiche di esterior disciplina. In questo i popoli non potevano dir del principe, che altro suono avessero le sue parole, ed altro i fatti; poichè ei dava le udienze in sagrestia, ei cantava coi frati in coro, egli addobbava gli altari, ei suonava le campane, egli ordinava i santi nel calendario dell'anno. Ma mentre il duca pregava, i popoli si erudivano, nè Parma perdette il nome, che si era acquistato, di città dotta e gentile.

      Sedeva a questi tempi, come abbiam già detto, sulla cattedra di san Pietro il sommo pontefice Pio VI, destinato dai cieli a sostenere il colmo della prospera, e dell'avversa fortuna. Il suo antecessore Clemente XIV da povero fraticello salito, per le virtù sue, alla grandezza del papato, aveva in tanta sublimità conservato quella semplicità di costumi, e quella modestia di vita, alle quali nella solitudine dei chiostri s'era avvezzato. Ciò parve a molti, in una Roma, nel primo seggio della Cristianità, ed in tanta non solo curiosità d'indagine, ma ancora inclinazione alla miscredenza, che nei popoli di quell'età molte evidentemente apparivano, cosa altrettanto intempestiva, e pericolosa, quanto era in se lodevole, e virtuosa; perchè ove gli argomenti non persuadono, le virtù non muovono, e per ultimo rimedio si deve por mano alla pompa, imperciocchè gli uomini facilmente credono esser la ragione dove vedono la grandezza: ed il rispettare è principio del persuadersi.

      Questi pensieri tanto operarono nella mente dei cardinali, che, morto Clemente, chiamarono papa il cardinal Braschi, che già fin quando era tesoriero della camera apostolica aveva mostrato in tutte le azioni non ordinario splendore. Veramente erano in lui, forse più che in altr'uomo de' suoi tempi, molto notabili l'eccellenza delle forme, la facondia del discorso, la finezza del gusto, la grandezza delle maniere, procedendo in ogni affare con tanta grazia giunta a tanta maestà, che e la venerazione verso la persona sua, ed il rispetto verso la sede ne venivano facilmente conciliati. Vero è, che tale generosa natura dava spesso, come suol avvenire, nell'eccesso contrario; perchè s'era bello d'aspetto, voleva anche comparir tale, forse più che al suo grado s'appartenesse; l'eloquenza sua sentiva talvolta di eccessiva squisitezza, e la grandezza peccava non di rado di vanità; del resto arbitrario e sdegnoso, sopportava malvolentieri che altri ai voleri suoi si opponesse. Queste erano le qualità di papa Pio. Circa i costumi, e' furono non che non meritevoli di riprensione, degni di lode; e certe voci corse in questo proposito, piuttosto alla malvagità dei tempi che seguirono, che a verità debbonsi attribuire.

      Ognuno crederà facilmente, che un pontefice di tal natura, sentendo altamente di se, doveva anche altamente sentire dell'autorità sua, e delle prerogative della sedia apostolica. Nè mancavano incentivi a queste inclinazioni. Covava allora fra quei cardinali, che non erano o dall'ignoranza offesi, o dall'ozio, o dalle morbidezze ammolliti, un disegno d'una suprema importanza per l'Italia, e quest'era di ridurla unita sotto un governo confederato, di cui fossero parte tutti i principi italiani, e capo il sommo pontefice. Principal autore di questo consiglio era il cardinal Orsini, uomo di natura piuttosto strana che no, ma dottissimo in materia canonica, ed assai caldo zelatore delle prerogative romane; se ai più pareva, che Gregorio VII avesse troppo detto e troppo fatto, pareva all'Orsini, ch'ei non avesse nè detto, nè fatto abbastanza. (Gorani, Mémoires secrets des Cours d'Italie, t. II) Pure, siccome da cosa nasce cosa, se il pensiere dell'Orsini circa la lega italica fosse stato ridotto in atto, avrebbe partorito effetti importanti, e dai papi potuto nascere la salute d'Italia, come pur troppo spesso n'è nata la rovina; perchè non sempre ebbero i papi il dovuto rispetto all'autorità temporale dei principi italiani; ed i principi


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