Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I. Botta Carlo
rinnovellavansi, ed andavano al colmo. Le dottrine di Porto-Reale si diffondevano; coloro che le mantenevano erano in molta autorità presso il popolo, perchè risplendevano non per oro, nè per corredi, ma per dottrina, per austerità di costumi, e per una certa semplicità di vita, che molto ritraeva degli antichi tempi evangelici.
Inclinazioni di tal sorte arridevano ai principi, memori tuttavia della superiorità dei gesuiti, e della potenza di Roma. Nè non pensavano, che maggiore autorità acquisterebbero nell'ecclesiastiche discipline, se i vescovi, che sempre sono da loro dipendenti, meno da Roma dipendessero. Stimavano che la diminuzione delle prerogative papali fosse per essere la libertà dei principi.
Queste massime più strette per chi dominava, più larghe per chi obbediva, trovavano disposizioni favorevoli nell'opinione de' popoli, e però più profonde radici mettevano. Così uno spirito stesso e circa le cose civili, e circa le ecclesiastiche andava insinuandosi a poco a poco in tutte le parti del corpo sociale. Ciò non ostante, se molti pensavano a riforme, nissuno pensava a sovvertimenti; nè alcuno ambiva di far da se, ma ognuno aspettava dal tempo e dalla sapienza dei principi temperamento alle cose, e compimento a' desiderii.
Piacemi ora, venendo ai particolari, che in proposito di riforme il mio discorso abbia principio da un nome imperiale. Giuseppe II, imperatore d'Alemagna, principe per vigor di mente, e per amore verso l'umana generazione facilmente il primo, se si paragona ai principi de' suoi tempi estranei alla sua casa; il primo forse ancora, od il secondo, se si paragona a Leopoldo suo fratello, molto pensò e molto operò in benefizio dell'austriache popolazioni. Nè voglio, che le accuse dategli, perchè era re, dagli sfrenati commettitori di tante enormità in Francia a' tempi della rivoluzione, nè quelle dategli dopo, perchè ei volle operare, ed operò molte novità, da coloro, che vorrebbono in chi regge una potestà non solo assoluta, ma anche dura e terribile, tanto gli nocciano, ch'io non lo predichi, come uno dei primi, e più principali benefattori, che abbia avuto il mondo. Molto viaggiò, non per pompa, ma per conoscere le instituzioni utili, ed i bisogni dei popoli; i casolari dei poveri più aveva in cale, che gli edifizj dei ricchi; nè mai visitava il bisognoso, che nol consolasse di parole, ed ancor più di fatti. Protesse con provvide leggi i contadini dalle molestie dei feudatari, opera già incominciata dalla sua madre augusta Maria Teresa: gli ordini feudali stessi voleva estirpare, e fecelo. Volle che si ministrasse giustizia indifferente a tutti; là creava spedali, ospizi, conservatorii, ed altre opere pie; quà fondava università di studi; i giovani ricchi d'ingegno, e poveri di fortuna, in singolar modo aiutava. Ai tempi suoi, e per opera sua lo studio di Pavia sorse in tanto grido, che forse alcun altro non fu mai sì famoso in Europa. Lo studio medesimo empiè di professori eccellenti in ogni genere di dottrina, cui favoriva con premii, e non avviliva con la necessità dell'adulazione. Nè contento a questo, fondò premii per gli agricoltori diligenti ed aprì novelle vie al commercio per nuove strade, per nuovi porti, per abolizione delle dogane interne; nè mai in alcun altro paese o tempo, furono in così grande onore tenuti, come in Italia sotto Giuseppe, gli scienziati che sollevano, ed i letterati che abbelliscono la vita incresciosa e trista. Mandovvi altresì, qual degno esecutore de' suoi consigli, il conte di Firmian, sotto la tutela del quale la Lombardia austriaca venne in tanto fiore, che sto per dire, che in lei verificossi la favolosa età dell'oro.
Quanto alle instituzioni ecclesiastiche, dichiarò Giuseppe la religione cattolica dominante, ma volle che si tollerassero tutte; comandò ai vescovi, che niuna bolla pontificia avessero per valida, che non fosse loro dal governo trasmessa, regola già praticata da altri principi, ma non sempre osservata; statuì, che gli ordini dei religiosi regolari, non dai loro generali residenti in Roma, ma bensì dal superiore ordinario, cioè dal vescovo, dipendessero; parendogli nè sicura, nè decorosa allo stato quella dipendenza, nè alla ecclesiastica disciplina profittevole; abolì i conventi che gli parvero inutili, lasciando sussistere fra le monache solamente quelle, che facevano professione d'ammaestrar le fanciulle; eresse nuovi vescovati, accoppionne altri; distribuì meglio l'entrate di tutti; fondò poi un numero assai considerabile di parrocchie, sollecito piuttosto dell'instruzione, e della salute di tutti i fedeli, che del fasto di pochi prelati.
A queste innovazioni risentissi gravemente il sommo pontefice Pio VI, uomo di natura assai subita, e delle prerogative della santa sede zelantissimo. Perciò confidatosi nell'autorità del grado, nella maestà dell'aspetto, e nell'eloquenza, che era in lui grandissima, nè pensando alla diminuzion di riputazione, che gli verrebbe, se la sua gita riuscisse senza frutto, se n'andò a Vienna. Quivi fu ricevuto forse tanto più onoratamente, quanto più gli si volevano denegare le proposte. Passate le prime caldezze, e ristrettosi con l'imperatore, entrò il pontefice a negoziare con lui delle cose che occorrevano; e con incredibile maestà favellando lo ammonì: «Badasse molto bene a quel che si faceva; magnifiche parole essere la semplicità delle cose antiche, ma non convenirsi ad un secolo che non le cura; esser trascorsi i costumi, debilitate le credenze, gli animi pieni d'ambizione, però l'apparato esteriore dover aiutare la fede vacillante, frenare dall'un canto, saziare dall'altro gli appetiti; altra dover esser la condizione della chiesa ristretta, povera, e perseguitata, altra quella della chiesa estesa quanto il mondo, ricca, e trionfante; se possono convenire i governi larghi ai piccoli stati, convenirsi certamente le monarchie ai grandi, nè in tanta immensità di dominio spirituale potersi senza pericolo debilitare la potestà suprema della santa sede; senza di lei sorgerebbero tosto le ambizioni locali, e nascerebbe lo scisma; osservasse quante discordie, e quante sette fossero nate dal solo errore di Lutero, non per altro, che per aver gettato via il salutare freno del successore di San Pietro: lacererebbesi del pari la restante chiesa cattolica da tali principii; e tolti al governo consueto del pastore universale, gli agnelli diventerebbero preda dei lupi; in materia di riforme, quando si vuol far da se, cominciarsi forse con animo innocente, e volto al bene, finirsi per la pervicacia, e per l'ambizione connaturale all'uomo, nel male; non desse ascolto alle parole melliflue, e suonanti umiltà di certuni; sotto umili spoglie, entro discorsi mansueti velar essi pensieri superbissimi; non voler obbedire altrui per poter col tempo dominare altrui; deboli, esser supplicanti, forti, intolleranti; riflettesse, quanto importasse alla conservazione delle monarchie temporali la monarchia spirituale; le male usanze appiccarsi facilmente; sciolta questa, esser pericolo, che per contagio si sciolgano anche le altre, e già gittarsene motti per le dottrine dei moderni filosofi; dal torre la venerazione ad un potente, al torla a tutti esser facile la strada; in un secolo scapestrato nissun maggior fondamento aver i monarchi, che l'autorità monarchica del pontefice romano; ch'esso ne voglia abusare, come ne fu accusato ai tempi antichi contro i monarchi stessi, apparire nissun indicio, nè comportarlo il secolo; quanto a lui particolarmente, avvertisse diligentemente alla potenza del re di Prussia, emulo della potenza sua, e capo della parte protestante in Germana; se alienasse da se i cattolici, i quali seguiteranno sempre o per persuasione, o per consuetudine i dettami della chiesa di Roma, quale speranza, quale appoggio, quale forza gli resterebbe? Ricordassesi di Carlo V, suo glorioso antenato, costretto a fuggirsene in fretta da Inspruck, cacciato da quei protestanti medesimi, a cui pur troppo grandi favori aveva compartito; seguitasse le vestigia dell'augusta sua madre, e di tanti altri antecessori del suo stesso sangue famosi al mondo per le cose grandi fatte sì in pace che in guerra, ma più famosi ancora per la pietà loro e per la divozione verso la santa sede; lasciasse dall'un de' lati queste subdole opinioni, questi pericolosi fatti, tornasse al grembo suo, ch'ei l'avrebbe accolto ed abbracciato, quale amorosissimo padre accoglie ed abbraccia un amatissimo figliuolo; sapersi lui, le cose umane trascorrere di secolo in secolo, ed aver bisogno di esser ritirate di tempo in tempo verso i principii loro; esser parato a farlo, come padre comune di tutti i fedeli in tutto quanto e la religione richiedesse, e la dignità, ed i diritti della santa sede tollerassero; ma da lui solo dover venire, come da fonte comune, ed in virtù della pienezza della potestà apostolica, le riforme; venir da altri, non poter essere senza scandalo, nè senza offesa della dignità, e delle prerogative del vicario di Cristo; in età già grave aver lasciato la sede apostolica sua, corso un tratto immenso di strada, valicati aspri monti, venuto in paese tanto strano a lui, a ciò spinto da quel divino spirito, che non inganna, per rimuovere ogni intermedia persona, per ammonirlo a bocca lui medesimo dei pericoli che sovrastavano, e per farlo avvertito, che una è la chiesa di Cristo, uno il governo di lei, ed uno il suo pastore, dal quale solo gli altri derivano l'autorità loro; non sopportasse, che tanta fatica, che sì solenne viaggio, che esortazioni tanto paterne, che sì grande aspettazione dei buoni, in affare di tanto momento, fossero indarno».
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