Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III. Botta Carlo
a Querini nel mese di luglio in Venezia, dopo il cambiamento dello stato, acciocchè ne effettuasse il pagamento: gli protestava; fu carcerato, ed esaminato per ordine del direttorio per querela di aver voluto corrompere il governo Francese. Questa fu veramente un'arte cupa; perchè, se vi fu corruzione, e certamente in qualcheduno fu, ella non andò già da Querini ad altri, ma da altri a Querini.
Intanto un accidente, frutto di una vituperevol fraude da una parte, accompagnato da una estrema crudeltà dall'altra, famoso al mondo per l'importanza sua, e pel paragone di un altro fatto rinomato nelle storie, era vicino a sorgere nella principale città della Veneta terraferma. Abbiamo già raccontato, come Buonaparte, perchè l'Austria accettasse da lui, in ricompensa dei Paesi Bassi, e del Milanese, lo stato Veneziano, si era messo in punto di farlo rivoltare contro il senato. Insidiò principalmente Verona. I suoi agenti non lasciavano alcuna cosa intentata, e la popolazione Veronese contaminavano con promesse agli avidi, con istimoli agli ambiziosi, con mostra di libertà, con abbominazione di tirannide agli amatori del vivere libero. Il senato all'incontro avendo avuto sentore, anzi certezza delle trame di Verona, vi aveva mandato, come già abbiam raccontato, provveditori straordinari, uomini di fede e di virtù, con un forte polso di genti Schiavone. Vi arrivavano, oltre a ciò, i villani dei contorni, ai quali erano state messe in mano le armi: erano una massa considerabile. Stavano ambe le parti vigilanti, l'una per impedir gli effetti delle suggestioni e delle sommossioni d'oltre Mincio, l'altra per ajutarli. Gli animi infiammati dall'un canto, arrabbiati dall'altro, insospettiti tutti, si mostravano pronti, non solo ad usare le prime occasioni gravi, ma ancora a prorompere per le più leggieri, ed una voce, un suono, un segno che uscisse, potevano partorire una generale commozione. In tanta concitazione reciproca le cagioni potevano nascere ugualmente dall'una e dall'altra parte. Da tutto questo conoscerà il lettore, che poco rileva il sapere, se si sia incominciato a far sangue dai Francesi, o dai Veronesi, perchè proposito dei capi Francesi era di far rivoluzione in Verona, proposito dei Veronesi d'impedirla: i primi volevano darla all'Austria, i secondi conservarla a Venezia; e so ben io ciò, che farebbero i Francesi, o gl'Inglesi, se qualche potenza forestiera vendesse ad un'altra Lione, o Birmingham.
Era debole il presidio Francese in Verona, nè atto per se a tanta mole; perchè il generalissimo aveva avuto bisogno di tutte le sue forze contro l'Austria, ma si sperava nei maneggi secreti, e nell'opera dei novatori, ed oltre a ciò incominciava a scoprirsi nel Padovano la schiera di Viotor mandata da Buonaparte a rivoltar lo stato nella terraferma. Si accostava inoltre Lahoz coi Lombardi, e Polacchi, accostavansi le masse repubblicane di Brescia e di Bergamo, ed il forte presidio di Mantova poteva dare da luogo vicino nervo all'impresa. Intanto il capitano Carrere, comandante di Verona, soldato amantissimo della repubblica, ma probo e religioso, vedendo il pericolo tratteneva ogni Francese che da Francia venisse, od in Francia ritornasse, per modo che riuscì a raccorre circa ottocento soldati. Arrivavano poco stante duecento Cisalpini, valorosa gente, capitanata in gran parte da Francesi, ed assai disposta a secondargli. Già segni annunziatori di quanto doveva succedere si spargevano per le campagne: erano in ogni luogo minacce, mischie, ed uccisioni. I sollevati dipendenti da Buonaparte uccidevano i sollevati, che gridavano San Marco; dall'altra parte dei Francesi isolati, coloro, che s'imbattevano in gente più moderata, erano o arrestati, od insultati; quei, che incontravano uomini più sfrenati, erano uccisi. Un prete, figliuolo del conte Malenza, postosi in agguato con una squadra di mila villani, infestava le strade tra Peschiera e Verona. Incessantemente si predicava, volere i Francesi fare una rivoluzione per impadronirsi delle sostanze dei popoli, e singolarmente del monte di pietà, dove erano grandissime ricchezze. Allegavano l'esempio del monte di pietà di Milano depredato contro le leggi del giusto e dell'onesto. Il fatto era pur troppo vero, e la ricordanza di lui produceva una rabbia incredibile in mezzo a quelle popolazioni già tanto concitate. Succedevano in Verona stessa ad ogni momento minacce tra Francesi e Schiavoni, succedevano altercazioni frequenti tra Francesi e Veronesi, ed allora gli Schiavoni si allontanavano. Le nappe con l'impronta del Lione, insegna della repubblica di Venezia, davansi a chi ne bramava. Godeva il provveditore nel vedere animi sì pronti, e tante difese apprestate. Dava opera ad ordinarle; descriveva i villani accorsi, raccomandava l'ordine e la quiete, comandava, non offendessero persona; solo stessero armati, e pronti. Così l'agro Veronese suonava tutto all'intorno d'armi contrarie, ed armi contrarie erano in atto d'affrontarsi dentro le mura stesse di Verona. Preparavansi i magistrati a propulsare qualunque assalto, fatti accorti dai fatti di Bergamo, Brescia, Crema, ed ancor più dalle novelle certe delle intenzioni di Buonaparte. Il generale Balland surrogato a Kilmaine nel governo militare di Verona, sollevato d'animo a tanti romori, scriveva al provveditore, esortandolo a provvedere, che i disordini cessassero. Rispondeva il Veneziano, che il farebbe, sempre anzi averlo fatto, ma toccava rimproverando i maneggi degl'insidiatori, mandati a posta per sommuovere le province.
Era il dì diciasette aprile, secondo giorno di Pasqua del millesettecentonovantasette, quando alle ore quattro meridiane scoppiava ad un tratto la terribil sollevazione Veronese. Incominciava da insulti e da minori fatti dai soldati Veneziani e dai Veronesi armati, contro le guardie Francesi sparse in vari luoghi della città. Il comandante Carrere, veduto quanto il tempo fosse minaccioso, ristringeva i suoi sulla piazza d'armi, pronto a correre dove bisogna fosse. In cotal guisa stava armato e raccolto lo spazio di un'ora, quando Balland fece trarre, erano le cinque della sera, qual segno di guerra, cannonate dai castelli. A quel rimbombo si conduceva spacciatamente Carrere con la sua schiera nel Castel-Vecchio, contro il quale già combattevano i Veronesi dalle case vicine. Il romore inaspettato delle artiglierìe Francesi diè cagione di credere ai Veronesi già tanto infiammati, che fosse intenzione di Balland di trattare ostilmente Verona. Nè s'ingannarono punto; perchè poco dopo traeva furiosamente contro il palazzo pubblico, che ne fu lacero e guasto in molte parti. Diroccarono al primo trarre le creste del palazzo degli Scaligeri. Cambiavasi in un momento l'aspetto della città; perchè vi sorgeva una rabbia, un gridare, un correre contro i Francesi da non potersi raccontare degnamente con parole. Un suonare di campana a martello continuo e precipitoso accresceva terrore alla cosa. Dei Francesi, coloro che si trovavano più vicini ai castelli, massime al Castel-Vecchio, in loro si ricoveravano a tutta fretta: ma non fu senza pericolo, perchè rabbiosamente gli seguitava il popolo, che gli voleva ammazzare, e bersagliandogli dalle finestre con palle, con sassi, con ogni sorte d'armi faceva loro il ritirarsi difficile e mortale. Il furore aveva preso non solo gli uomini ed i forti, ma ancora i vecchi, le donne, i fanciulli, ognuno volendo ricompensare con un sangue odiato le ingiurie ed i patimenti. Molti dei Francesi in tal modo fuggenti restarono uccisi, plaudendo all'intorno il popolo inferocito. Chi non potè ripararsi a tempo nei castelli, cercava salvezza nei più segreti nascondigli delle case; ma non però tutte, anzi poche erano loro sicure; perciocchè non pochi, rottasi dai padroni la ospitalità, vi restarono miseramente uccisi. Alcuni furon gettati nei pozzi, altri trafitti dai pugnali, altri risospinti fuori delle porte, perchè fossero segno alla rabbia popolare, che tuttavia fra le grida orribili, fra il rimbombo delle artiglierìe dei castelli, fra i tocchi incessanti pel suonare a stormo andava crescendo. Molti amministratori dell'esercito, molte donne, molti fanciulli, molti ammalati erano in Verona, e questi furono, la maggior parte, condotti a miserabil morte da un popolo, che pagava con eccessiva crudeltà contro gl'innocenti le ingiurie, le ruberìe, le fraudi, i tradimenti usati da chi aveva contro di lui contaminato il nome di Francia. Era spettacolo pieno di compassione e di terrore il vedere malati languenti perseguitati da sicarj sanguinosi, donne atterrite da donne furibonde. Noi vedemmo un portico, tutto lurido e stillante ancora di sangue di Francesi ammaccati piuttosto che trafitti da un immenso furore; noi vedemmo spoglie sanguinose tratte da pozzi e da fogne; noi vedemmo miserabili vestimenta serbate a gloria dai violenti trucidatori. Ma la pressa, le minacce, la crudeltà, che il cielo serbi condegno castigo agli autori veri di tanto infinita barbarie, erano intorno all'ospedal militare. Degli ammalati alcuni furono uccisi, parecchi malconci e spogliati. Nè le preghiere, nè la debolezza, nè l'aspetto medesimo della morte già vicina in un ferocissimo morbo potevano piegare a misericordia questi uomini, nei quali null'altra cosa d'uomo restava che il volto. Nè veniva meno la crudeltà per la stanchezza, o per lo sfogo; che anzi sangue chiamava sangue, e le forze, che mancano spesso al ben fare, non mancavano al mal fare. Se per assenza di vittime pareva un poco acquetarsi il furore, tosto si riaccendeva più fiero che prima, ove fosse scoperto un Francese; e di nuovo si dava mano alle stragi. Non in meno pericolosa condizione si ritrovavano i patriotti o Veronesi, o forestieri: che anzi maggiore contro di loro si mostrava la rabbia