Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III. Botta Carlo
Mantova rapito dai Tedeschi non so che carro di bagaglio di generali, fu posto da Buonaparte ad una taglia di cencinquanta mila franchi, taglia tanto esorbitante per quello piuttosto casale che villaggio, che era anche ridicola. Perchè poi non la potevano pagare, vi mandava Junot con un grosso di cavalleria a vivervi a discrezione. Queste enormità si moltiplicavano; i popoli, che non vedevano altra cagione, che una insolenza fantastica, od una sete di rapire insaziabile si riempivano di sdegno. Giuravano di andar all'incontro di ogni più grave pericolo, di sopportare ogni più crudele disgrazia piuttostochè non vendicarsi, e non tentare di sottrarsi a sì orribile dominazione. Molto sangue Francese fu certamente versato, e pur troppo barbaramente a Verona, e fu sangue, la maggior parte, d'innocenti. Ma gli autori veri e primi di sì cruda carnificina, non inganneranno punto la giustizia divina, nè il giudizio dei posteri. Sa Dio, e sapranno i posteri, se contro il Veneziano governo, o contro Buonaparte, se contro i conculcati o contro i conculcatori, se contro il conte Francesco degli Emilj, o contro coloro, che il generalissimo di Francia secondavano nell'opera rea prima di far ribellar Verona contro il senato, poi di vendere Venezia, se contro chi non voleva essere tradito, o contro chi voleva tradire sia quel sangue sparso, e contro chi gridi vendetta.
Dava nuovo animo ai Veronesi il fatto di Salò, perchè, andata contro questa terra una grossa squadra di Bresciani, mista di Polacchi e di qualche Francese, fu rotta con non poca strage dai Salodiani, aiutati dagli abitatori della valle di Sabbia; i quali, siccome quelli che erano molto affezionati al nome Veneziano, erano accorsi per conservare la città sotto la divozione dell'antico principe. Quest'erano le masse ordinate dall'Ottolini ai tempi del suo ufficio in Bergamo. Lodevole esempio di fedeltà e di ardire dava nella fazione di Salò il provveditore Francesco Cicogna; dal che si può argomentare quale mutazione avrebbero fatto le cose di Venezia, se il senato avesse permesso, che Ottolini desse dentro, quando ancora era tempo, col suo stormo, e se Battaglia tale fosse stato quali furono Ottolini e Cicogna. I prigioni fatti a Salò, che arrivarono a più di ducento, furono condotti a trionfo per Verona, i sudditi carcerati, come rei di stato. La vittoria dei Salodiani rinvigoriva gli animi sbigottiti in tutta la terraferma Veneta. Armavansi a gara i popoli, e protestavano della fede loro verso il senato. Questo moto fu apposto a delitto ai Veneziani da Buonaparte, e dagli storici adulatori di lui, i quali per altro confessano, che in quel momento stesso, e già da lungo tempo prima si trattava di far indenne l'Austria a spese di Venezia. Adunque doveva Venezia darsi di per se stessa vinta, e disarmata in mano di chi sotto colore di amicizia la tradiva? Certamente doveva Venezia in quell'estremo frangente, in cui era caduta, non per colpa propria, ma d'altrui, difendersi: bene gli uomini generosi, gli amatori massimamente del nome e del costume Italiano le daranno eterno biasimo del non essersi abbastanza, ed a tempo difesa, e con dolore vedranno nei ricordi delle storie scritto i posteri, che l'opera della sua distruzione sia stata frutto, tanto della debolezza de' suoi reggitori, quanto della malvagità di amici fraudolenti; poichè fuori di dubbio è, che, passando anche sotto silenzio le passate occasioni, se dopo la vittoria dei Salodiani, le disposizioni tanto incitate dei Veronesi, ed i preparamenti fatti nell'estuario, in un con le vittorie di Laudon nel Tirolo e con le masse Tirolesi e Croate, avesse il senato fatto una forte risoluzione coll'unirsi all'Austria, e col dichiarare la guerra alla repubblica di Francia, si sarebbe trovato Buonaparte in gravissimo pericolo, e l'antico dominio dei Veneziani sarebbe stato preservato. Ma l'aver voluto aspettare l'estrema ingiuria, quando già le ingiurie avevano oltrepassato l'estremo, e l'aver abbandonato i sudditi, quando volevano difenderla, fu cagione della ruina della repubblica.
Le insidie contro Venezia alle raccontate cose non si rimanevano. I moti della terraferma erano spontanei, e solo cagionati dalla rabbia concetta dai popoli infastiditi delle insolenze, e sdegnati dalle ingiurie dei forestieri. Perciò il senato gli poteva qualificare come opera non sua, e sempre protestare, quanto spetta alla direzione del governo, della perfetta neutralità. Ma i capi delle rivoluzioni in Italia, secondando il talento proprio, e credendo di far cosa grata al generalissimo, pensarono di fabbricare una menzogna, ed apponendo un atto falso ad uno dei magistrati più principali far in modo, che il governo Veneziano egli medesimo paresse colpevole di ree instigazioni contro i Francesi; della qual fraude nissuna si può immaginare nè più brutta, nè più diabolica. Inventarono adunque e pubblicarono un manifesto, attribuendolo a Battaglia, provveditore straordinario per la repubblica in terraferma, col quale si stimolavano i popoli a correre contro i Francesi, e ad uccidergli. Fu questo manifesto composto per opera di un Salvadori, novatore molto operativo di Milano, e rapportatore palese e segreto di Buonaparte, che poscia creatosi imperatore, l'abbandonò in miseria tale, che gittatosi in fiume a Parigi terminò con fine disperato una vita poco onorevole. Tornando al manifesto, fu egli stampato in un giornale a Milano, intitolato il Termometro politico, giornale che si scriveva in casa del Salvadori da patriotti molto migliori di lui, ma portati ancor essi dalla illusione e dalla vertigine di quell'età. Quantunque astutamente gli sia stata apposta la data dei venti marzo, uscì veramente ai cinque aprile, tempo opportuno perchè Buonaparte arrivato a Judenburgo a questo tempo, già offeriva gli spogli della repubblica, e già fatto sicuro della pace con l'imperatore, non aveva più timore delle masse Veneziane. Così l'incitare contro i Francesi era pretesto di far uccidere i Francesi dai Veneziani, i Veneziani dai Francesi, e per trovar compensi all'imperatore a danni di Venezia. Il non aver fatto il generalissimo alcun risentimento contro gli autori di un fatto tanto grave, e che poteva e doveva costar la vita a tanti Francesi, pruova ch'ei ne fosse soddisfatto.
Il manifesto era quest'esso:
«Noi Francesco Battaglia per la serenissima repubblica di Venezia provveditore straordinario in terraferma.
«Un fanatico ardore di alcuni briganti nemici dell'ordine, e delle leggi eccitò la facile nazione Bergamasca a divenir ribelle al proprio legittimo sovrano, ed a far correre da una moltitudine di facinorosi prezzolati altre città, e provincie dello stato per sommovere anche quei popoli. Contro questi nemici del principato noi eccitiamo i fedelissimi sudditi a prendere in massa le armi, e dissipargli, e distruggergli, non dando quartiere o perdono a nissuno, ancorchè si rendesse prigioniero, certo che sì tosto gli sarà dal governo data mano, e assistenza con denaro, e truppe Schiavone regolate, che sono già al soldo della repubblica, e preparate all'incontro.
«Non dubiti nissuno dell'esito felice di tale impresa, giacchè possiamo assicurare i popoli, che l'esercito Austriaco ha inviluppato, e compiutamente battuti i Francesi nel Tirolo e nel Friuli, e sono in piena ritirata i pochi avanzi di quelle torme sanguinarie e irreligiose, che sotto il pretesto di far la guerra ai nemici devastarono i paesi, e concussero le nazioni della repubblica, che loro si è sempre dimostrata amica sincera e neutrale, e vengono perciò i Francesi ad essere impossibilitati di prestar mano e soccorso ai ribelli, anzi aspettiamo il momento favorevole d'impedire la stessa ritirata, alla quale di necessità sono costretti.
«Invitiamo inoltre gli stessi Bergamaschi, rimasti fedeli alla repubblica, e le altre nazioni a cacciare i Francesi dalle città e castelli, che contro ogni diritto hanno occupato, e a dirigersi ai commissarj nostri Pier Girolamo Zanchi, e dottor fisico Pietro Locatelli per avere le opportune instruzioni, e la paga di lire quattro al giorno per ogni giornata in cui militassero.
«Verona, 20 marzo 1797.
«Francesco Battaglia, provveditore straordinario in terraferma,
«Gian-Maria Allegri, cancelliere di Sua Eccellenza. Per lo stampatore camerale».
Questo manifesto si spargeva in copia dai patriotti e dai capi Francesi, massimamente da Landrieux. Nè credendo i macchinatori di questa fraude, che tutto l'operato fin qui bastasse, perchè i popoli vi prestassero fede, Lahoz, capo e guida di tutte le genti Lombarde e Polacche, e che mescolato in queste trame di rivoluzione ne conosceva bene il fondo, gli avvertiva con bando pubblico, che la neutralità era stata rotta dai tradimenti di Battaglia, il quale, soggiungeva, pazzamente si era persuaso, che «Voi altri contadini, privi in tutto di arte militare, sareste i vincitori dei Francesi, la prima nazione dell'universo pel coraggio, e la scienza della guerra. Sappiate adunque, che il generale Buonaparte ha ordinato, che Battaglia sia messo in ferri, ed impiccato; che saranno pure impiccati coloro, che v'inciteranno alla ribellione; le vostre case saranno arse, le famiglie desolate: uscite d'errore, e presto, deponete le armi, portatele al comandante di Brescia; mandategli deputati; quando no, perirete tutti».
Queste ingannevoli dimostrazioni si facevano dagli autori stessi del manifesto