Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III. Botta Carlo

Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III - Botta Carlo


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ne avvertirebbe egli, acciocchè tutti ad un tratto potessero arrestarsi, e così intieramente si renderebbe vana la diabolica cospirazione. Protestatosi dallo Stefani, volersene tornare a Bergamo, rispondeva Landrieux, non convenirsi, bensì andare a Brescia. Toccatasi dal Veneziano la gratitudine della repubblica rispondeva il Francese, premio non desiderare per allora, doversi il suo nome tenere segreto, finchè l'esercito fosse ridotto sulle Alpi per restituirsi in Francia; se Venezia allora si ricordasse di Landrieux, ciò gli sarebbe a grado. Trovava modo Stefani di tornare a Bergamo; ebbe raccontato il fatto ad Ottolini. Scriveva il podestà prestamente al provveditore straordinario Battaglia. Ma i congiurati, forse per aver avuto sentore, o lingua degli avvisi dati da Landrieux, furono più presti a fare, che Ottolini e Battaglia ad impedire.

      Era la mattina dei dodici marzo, quando un moto insolito si manifestava in Bergamo, i congiurati chiamavano il popolo a libertà; predicavano, ajutare i Francesi l'impresa; divisi in varie squadre giravano per la città; fermavansi tratto tratto ai capi delle strade, poi di nuovo marciavano; guardie Francesi raddoppiate alle porte, cannoni condotti dal castello in piazza, due rivolti al palazzo; interrogato il comandante Francese dal podestà, che cosa volesse significar questo, accusava pattuglie insolite di soldati Veneziani e della sbirraglia. Erano in Bergamo due compagnìe di cavallerìa Croata, due di fanti d'oltremare, tre d'Italiani, forse con tutto questo trenta sbirri; non montavano fra tutti a quattrocento: i Francesi quattro mila, se non mentivano le polizze, perchè per altrettanti forniva i viveri la provincia. Di quei pochi, col castello in mano, con tutte le artiglierie in suo potere temeva il comandante. Insomma nasceva il romore, atterriti gli amatori dello stato vecchio, imbaldanziti gli amatori del nuovo. Lefevre, comandante per Francia, fatti chiamare a se i deputati alle provvisioni, intimava loro, avessero a sottoscrivere il voto per la libertà, ed unione del Bergamasco alla repubblica Cispadana: se nol facessero, ne anderebbe la vita. In questo mezzo due uffiziali repubblicani, l'Hermite e Boussion, presiedevano ai voti per la libertà, ed unione alla Cispadana. Sottoscrivevano, alcuni per amore, molti per forza. Era un andare e venire, una confusione, un trambusto incredibile. Scendeva la notte intanto, e rendeva più terribile l'aspetto delle cose. In questo mentre si creava il municipio; toglievano i repubblicani lo stendardo Veneto, che ancora sventolava sulle mura del castello. Era ancor libero Ottolini, instava presso a Lefevre comandante, della santità dei neutri ammonendolo. Ma Lefevre, deposta in tutto la visiera, faceva udire questo suono, che il popolo di Bergamo era libero, che per questo egli aveva fatto torre lo stendardo Veneto, ostacolo alla libertà; che le intraprese lettere del podestà (quest'erano le lettere con le quali Ottolini mandava agl'inquisitori di stato la nota dei congiurati, e che erano state intercette ed aperte da Lefevre) gli servivano di regola; che però egli, Ottolini, avesse a sgombrar tosto da Bergamo; quando no, il manderebbe carcerato a Milano. Cacciare dalla propria sede sotto pena di esilio e di carcere un rappresentante pubblico di un governo, è oltraggio tale, che niun altro può esser maggiore, e solo avrebbe bastato, non solamente a giustificare, ma ancora a necessitare qualunque presa d'armi, ed anzi una formale dichiarazione di guerra da parte del senato Veneziano contro la Francia, se questa non satisfacesse, come effettivamente non satisfece. Mentre il comandante minacciava Ottolini, sopraggiungevano l'Hermite e Boussion, e con loro i conti Pesenti ed Alborghetti, in divisa e nappa Francese. Di bel nuovo intimavano ad Ottolini, partisse subito, o sarebbe mandato a Milano. Partiva il podestà alla volta di Brescia, lasciando Bergamo in poter dei novatori, i soldati Veneti, prima disarmati, poi mandati a Brescia.

      Il nuovo magistrato municipale mandava fuori un manifesto per informare, come diceva, il popolo sovrano, che i municipali erano entrati in ufficio. Scriveva quindi il giorno medesimo in nome del popolo sovrano di Bergamo alla repubblica Cispadana, avere Bergamo conquistato la libertà, desiderare collegarla con quella della Cispadana; l'accettassero in amicizia, dessergli quella del popolo Cispadano. «Viviamo, continuavano, combattiamo, e moriamo, se fia d'uopo, per la causa medesima: al medesimo modo debbono vivere i popoli liberi: viviamo adunque uniti per sempre voi, Francesi, e noi».

      Pubblicavansi frequenti scritti, parte serj, parte faceti, parte schernevoli sul lione di San Marco, sui piombi di Venezia, sugl'inquisitori di stato, sulla tirannide d'Ottolini, sull'aristocrazia, sull'oligarchia, e simili altre parole greche; strana occupazione di menti del condannare in altri ciò che era in se, perchè dei piombi, e degl'inquisitori si può domandare, che altra cosa fossero i ministri di polizia del direttorio e di Buonaparte, se non inquisitori di stato, e se non abbiano fatto arrestare, e tener prigione senza processo più gente in quindici anni, che gl'inquisitori di Venezia in tre secoli. Si può anche domandare, se i castelli di Vincenna, di Ham, e di Pietra Castello non fossero piombi, e se il comandante di Milano non esercitasse maggior tirannide contro coloro che non amavano lo stato nuovo, che Ottolini contro quei che non amavano il vecchio. Quanto all'aristocrazia ed all'oligarchia, gli uomini dritti, e che non si lascian prendere alle grida, sapranno ben essi con qual nome chiamare uno stato, come quello era di queste estemporanee repubbliche Italiane, in cui un comandante militare comandava a pochi gridatori di libertà, questi pochi molestavano con ischerni, con tasse, con prigionie, e con esilj l'universale dei popoli. Io temo che da tutto questo chi mi legge creda, ch'io non sia amico della libertà; ma queste cose io dico appunto, perchè sono; imperciocchè il peggior male che si sia fatto alla libertà, è l'aver chiamato col suo nome la tirannide. Trovomi in questo concorde col generoso Parini: ed ancor io, diceva egli, amo la libertà, ma non la libertà fescennina.

      Intanto i novatori, non essendo senza sospetto sugli abitatori delle campagne, mandavano uomini fidati a predicare la libertà, rizzavano alberi, creavano municipali, gridavano contro l'aristocrazia: i popoli aombravano, non sapendo che cosa queste strane fogge si volessero significare. Non si muovevano in favor dello stato nuovo, perchè non l'intendevano, e non vedevano qual bene avesse in se: neppur si muovevano in favor del vecchio, perchè il caso improvviso di Bergamo gli aveva fatti attoniti e temevano i Francesi che vi erano mescolati. Arrivavano poscia Cispadani, Transpadani, Polacchi, ogni sorte di patriotti, e facevano un predicare, uno scrivere, un festeggiare incredibile.

      Quivi non si rimanevano le disgrazie della repubblica veneziana. Rivoltato Bergamo, volevano far mutazione in Brescia per vieppiù stabilire nella divozione altrui quelle provincie. Non aveva omesso Ottolini, quando ancora era in ufficio, d'informare il provveditore straordinario Battaglia della trama che si macchinava contro di questa città e gli aveva mandato il nome dei congiurati, dei quali non si era punto ingannato, consigliandolo ad aspettare che tutti fossero uniti, il che doveva accadere, secondo gli avvisi di Landrieux, il ventuno del mese, e ad arrestargli, e ad uccidergli. Inoltre il rappresentante Veneto a Milano Vincenti scriveva continuamente al provveditore straordinario, stesse avvertito, perchè la congiura era vicina ad aver effetto; si armasse, non si fidasse del comandante Francese del castello di Brescia, perchè s'intendeva coi congiurati. Tutte queste cose turbavano l'animo del provveditore, e lo tenevano sospeso, perchè l'uccidere i congiurati non gli pareva sicuro in tanta contaminazione di spiriti, massimamente pensando ch'essi appartenevano alle più principali famiglie di Brescia. Da un'altra parte il far venire soldati da Verona gli pareva dar troppo sospetto, temendo dei Francesi; nè anco quei soldati potevano esser molti. Ristringeva in Brescia le squadre di cavallerìa sparse nel contado; ma erano poche genti. Chiamava a se i Lecchi, i Gambara, i Fenaroli, e gli altri amatori di novità, e gli accarezzava, ma senza frutto. Non sapeva a qual partito appigliarsi; le artiglierìe in mano dei Francesi; il castello poteva fulminare la città. Scriveva Battaglia a Buonaparte, col quale aveva qualche entratura d'amicizia, macchinarsi in Brescia contro lo stato da gente scellerata sotto nome di protezione Francese; e stantechè tutte le artiglierìe Venete erano in poter suo, richiederlo, che lo accomodasse di sei od otto, perchè si potesse difendere: richiederlo, oltre a ciò, vietasse ai soldati Lombardi il passo per la città, frenasse chi si vantava della protezione di Francia. Dei cannoni nulla rispondeva Buonaparte; dei Lombardi e del frenare rescriveva, non doversi perseguitar gli uomini in grazia delle loro opinioni, non esser delitto se uno inclinava più ai Francesi che ai Tedeschi, come se in questo caso si trattasse tra Francesi e Tedeschi, e non tra ribelli ed uno stato al quale egli aveva tolto i mezzi di difesa: e come se ancora si trattasse di opinioni e non di fatti, e di congiure contro lo stato. Desiderava finalmente di veder il provveditore. Accrescevano il pericolo ed il terrore la rivoluzione di Bergamo. Le cose si avvicinavano all'estremo fine.

      Ecco la sera dei diciasette marzo arrivare improvvisamente le novelle, essere giunti


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