Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III. Botta Carlo
per loro avere il museo di Parigi acquistato quanto di più bello aveva penato trenta secoli l'antica e la moderna Italia a produrre; le più belle contrade d'Europa essere in potestà della repubblica; a loro obbligate della libertà la Lombarda, e la Cispadana repubbliche; vedere per la prima volta l'Adriatico le Francesi insegne; là oltre, e poco distante mostrarsi la Macedonia antica; il re di Sardegna e di Napoli, il papa, il duca di Parma, abbandonata la lega, avere ricerco l'amicizia della repubblica; gl'Inglesi cacciati da Livorno, da Genova, da Corsica essere testimonj del loro valore; molto essersi per loro fatto, molto ancora restare a farsi; meritassero l'affezione della patria confidente nel loro coraggio; solo fra tanti nemici stare in piè ed in armi l'imperatore, l'imperatore postosi agli stipendi dei mercanti di Londra, dei perfidi isolani d'Inghilterra, che non tocchi dai mali della guerra, non tocchi dai mali del continente trionfavano; avere voluto il direttorio la pace a condizioni oneste; averle rifiutate la venduta Vienna: gissero adunque, esortava, la pace cercando nel cuore stesso degli stati ereditari d'Austria; vedrebbero popoli valorosi fatti infelici dalla guerra col Turco, fatti infelici dalla guerra con la repubblica; vedrebbero popoli sdegnati contro ministri corrotti dall'oro d'Inghilterra; la religione onorassero, i costumi rispettassero, le proprietà proteggessero, alla prode nazione Ungara la libertà recassero; la casa d'Austria venuta in odio ai popoli pei violati privilegi, sforzassero a quella pace, ch'essi stessi volessero, e la riducessero, a quella condizione di seconda potenza, a cui già si era da se medesima abbassata pei ricevuti salari d'Inghilterra. Voci molto incitatrici erano queste agli animi di soldati valorosi, vincitori, e che non conoscendo qual fosse in tanta contesa il dritto, il giusto, e l'onesto, non altro suono conoscevano, che quello delle armi.
Dalla parte dell'Austria, che mal volentieri si disponeva a lasciare del tutto le cose d'Italia abbandonate, le faccende passavano con maggior moderazione, ma non con maggior coraggio, se si guardano le risoluzioni di chi reggeva lo stato; imperciocchè, oltre le reliquie dei soldati vinti, si mandavano alla volta della Carintia, della Carniola, e del Friuli circa trentamila delle genti del Reno, nuove leve si ordinavano negli stati ereditari, la nazione Ungara volonterosamente accorreva in ajuto del sovrano pericolante. Una massa di soldati vecchi e nuovi alloggiava a Salisburgo pronta a correre ai passi dell'Alpi; un campo si ordinava a Neustadt, come antemurale alla capitale dell'impero. Tutto ciò non si faceva senza necessità, perchè grande era la debolezza dell'esercito Italico, nè era l'animo maggiore delle forze; cinque volte vinto aveva perduto l'antico ardimento; le compagnìe sceme, i soldati nuovi non usi all'armi, i vecchi sconfortati dalle sconfitte; nè ordine stabile era fra loro, nè unità di consiglio; perchè mescolate le compagnìe, mescolati i soldati, non era più fra loro abitudine comune, sola madre dell'operare accordato, e della perfetta disciplina. Deboli le fanterìe, ancora più debole la cavallerìa, nervo tanto principale degli eserciti Austriaci, perchè il fiore era perito nella Mantovana guerra. Nè i generali, o gli ufficiali fra di loro s'intendevano, perchè lo sbigottimento dà luogo al voler provvedere alla salute sua ciascuno da se, e perciò il disordine, ed eziandio i rimproveri reciproci, come suole accadere nelle disgrazie, interrompevano l'armonìa. Non ostante in mezzo a tanta depressione d'animi e di fortuna, riconfortava la sbattuta oste il pensiero dello avere a guidatore e capo delle nuove imprese l'arciduca Carlo, principe amatissimo, che recentemente aveva dato segni di non mediocre perizia, e di singolare ardimento nelle guerre d'Alemagna. Nondimeno non potevano gli Austriaci per avere ogni provvedimento debole, perduta Mantova, il fiore della cavallerìa, e tante battaglie, sperare di riconquistare i dominj loro in Italia. Solo si confidavano di arrestare ai passi dell'Alpi verso la Germania i Francesi tanto che, conservato il cuor dell'imperio, potesse Francesco imperatore o difendersi con vantaggio, o convenire con onore.
Alloggiavano nel Trentino, nel paese di Feltre, e nella Marca Trivigiana, distendendo la fronte loro dai monti di Bormio insino alla foce della Piave. Ritirava sul principio di febbraio l'arciduca il grosso sulla sinistra riva del Tagliamento, e lo alloggiava nel Friuli e nella Carintia, lasciando tre schiere sulla fronte descritta. Trovavasi Liptay con una di esse a guardare lo spazio, che corre dalla frontiera dei Grigioni a Salorno, terra posta sulla sinistra dell'Adige sopra al Lavisio, e per tal modo stava a difesa del superiore Tirolo. Spiegava la seconda le sue ordinanze da Salorno a Feltre a traverso i monti che spartono le acque dell'Adige da quelle della Piave. Obbediva questa al freno di Lusignano, ed era pronta a venire al cimento con quei soldati rischievoli di Massena. Finalmente il principe di Hohenzollern con settemila soldati custodiva il paese da Feltre, scendendo per la sinistra della Piave fin dove ella mette in mare. Fermava l'arciduca il suo principal alloggiamento in Udine, capitale del Friuli, perchè sapeva, che il più forte sforzo dell'inimico si doveva indirizzare verso Gorizia.
Dipendevano gli animi degli uomini da espettazione di cose grandi nel vedere due capitani eletti, l'uno negli occhi di tutto il mondo per le guerre d'Italia, l'altro per quelle d'Alemagna, ed entrambi pari d'età, entrambi pari di valore, vicini al venire fra di loro al cimento dell'armi. Ma sebbene l'animo, e la perizia nelle cose di guerra nei due emoli si pareggiassero, non era la medesima la natura in ambidue, nè la stessa ancora la condizione dei tempi e dei luoghi, in cui si ritrovavano. Era l'uno audace ed impetuoso, l'altro temperato e prudente; guidava il primo genti vittoriose, il secondo genti quasi tutte vinte; combatteva quegli con l'armi o con le suggestioni, combatteva questi con l'armi e con l'antica fede; aveva il repubblicano l'esercito più grosso, il principe minore; andava con la vittoria di Buonaparte la conservazione dell'impero francese in Italia, andava con la vittoria di Carlo la conservazione della monarchìa d'Austria, e la messa di lui era maggiore di quella dell'avversario. Da un altro lato erano tutto all'intorno, e dietro, più fedeli i popoli al capitano Austriaco, più avversi al Francese, il che faceva le ritirate più sicure al primo che al secondo; e se il ritirarsi era più necessario a quello, era il vincere più necessario a questo. Per la qual cosa altra maniera di guerra doveva seguitare Buonaparte, ed altra Carlo; perchè la vittoria del primo consisteva nella celerità, quella del secondo nell'indugio, ed il non vincere fra breve tempo era per quella parte un perdere, sostenere per qualche tempo la guerra era per questa un vincere. La natura adunque dei tempi conveniva alla natura d'ambi i giovani emoli, e quello che per l'uno e per l'altro era necessità, era anche inclinazione. Per questo elesse Buonaparte di spignersi frettolosamente avanti per condurre alla giornata l'avversario ovunque il trovasse, mentre prese l'arciduca partito di ritirarsi, di farsi forte ai passi, di tagliare i ritorni, di non tentare senza necessità la fortuna del combattere, e di operar per modo sì coi soldati che con le popolazioni, che di altro spazio non fosse il Francese padrone, se non di quello in cui i suoi soldati insistessero. A questa deliberazione era anche costretto dal pensare, che, non essendo ancora giunti tutti, quantunque già fossero in viaggio, i rinforzi che dal Reno, dall'Ungheria, e dagli stati ereditari aspettava, il tirarsi indietro era avvicinarsi ai medesimi, e perciò diventare ogni ora più grosso, mentre a Buonaparte continuamente scemerebbono le forze in proporzione dello avanzarsi, a cagione dei presidj che doveva e nei luoghi aperti e nei chiusi lasciarsi alle spalle, per mantenere le strade sicure verso l'Italia, donde gli venivano i sussidi di soldati e di munizioni. Certamente buon modo di guerra intraprendeva Carlo, e mancò piuttosto l'animo in Vienna, che la prudenza nel difensore.
Il primo a dare il segnale delle nuove battaglie fu il generale di Francia: il dieci marzo si muoveva con la sua destra, e con la mezzana schiera. Era suo primario intendimento di entrar fra mezzo agli Alemanni per modo che l'ala loro destra restasse separata dalle altre. Perciò aveva ordinato, che il principale sforzo in questa prima mossa fosse fatto dalla mezzana, che raunata sulle rive della Piave obbediva a Massena; perchè era evidente, che ove egli fosse riuscito ad impadronirsi della Piave superiore, occupando il paese di Cadore, era interrotta la strada dal Tirolo al Friuli. Conseguito questo intento diveniva più facile a Joubert di cacciarsi avanti gl'imperiali fino all'ultimo varco di Germania, per quindi condursi per la valle del Puster e della Drava agli ulteriori disegni di Buonaparte. Nè mancava Massena del debito suo: perchè non così tosto si mosse, che gli Austriaci, abbandonata la fronte del Cardevolo, ed i luoghi più bassi, andavano a porsi in sito forte oltre Belluno a fine di propulsare l'inimico, se tentasse d'innoltrarsi nella valle di Cadore. Seguitavagli tostamente il Francese, e quantunque Lusignano con grandissimo valore si difendesse, prevalendo i repubblicani di numero, fu alla fine obbligato, non giovandogli nè l'avere ordinato i suoi in globo per aprirsi il passo alla salute, nè un bravo menar di baionette, a por giù le armi con tutta la sua schiera, e a darsi in potestà del vincitore. Per tal modo meglio di seicento