Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III. Botta Carlo
aver nelle mani, tanti uccise. Ma i più si erano ricoverati nei castelli, altri conficcati nel nascondigli passarono fra la speranza ed il timore parecchi giorni. Ma non tutto fu barbarie in questo lagrimevole accidente. Non pochi Veronesi, ed il conte Nogarola medesimo, quantunque fosse uno dei capi degl'insorti, conservarono, nascondendogli, a molti Francesi la vita, atto tanto più degno di commendazione quanto nel salvare la vita altrui correvano pericolo della propria; perchè non è da dubitare, che se il popolo si fosse accorto della pietà usata, avrebbe condotto all'ultima fine preservatori e preservati. Spargevasi intanto per le campagne il grido del caso di Verona: incominciavasi a toccar lo stormo; i villici accorrevano a torme armate nella tormentata città; e se il vecchio furore già languiva, l'accostamento del nuovo il rinfrescava. Le grida e le stragi rincominciavano, nè cessarono le uccisioni, se non quando non vi fu più uomo da uccidere. Mancata la materia dello ammazzare, si veniva in sul saccheggiare. Già il ghetto, essendo gli ebrei, oltre l'antico rancore, riputati partigiani di Francia, andava a ruba: già i fondachi del pubblico pericolavano, e non fu poco, che i provveditori potessero impedire, che coloro, i quali sì ferocemente combattevano per Venezia, le sostanze pubbliche di Venezia non rubassero. Tanto facilmente passano gli uomini infuriati dalle uccisioni ai latrocinj, dai latrocinj alle uccisioni. Correva il sangue per le case, correva per le contrade, i castelli tuonavano, gli Schiavoni infuriavano: anzi uniti al popolo volevano dar l'assalto a quei nidi, come dicevano, dove si erano confinati i tiranni d'Italia. Il maggior pericolo era pel Castel-Vecchio: posto essendo vicino alla città, potevano i soldati ed il popolo assaltarlo più facilmente; nè le sue difese erano forti, poichè dava adito al castello un ponte chiuso solamente da un cancello di ferro, e la porta di debol legno era anche priva di saracinesca.
Il provveditor Giovanelli, in mezzo a tanta confusione e tanti sdegni, avrebbe voluto, non far deporre le armi, perchè nè la tempera degli animi Veronesi, nè il trarre continuo dei castelli il permettevano, ma frenare la barbarie, ed introdurre ordine e misura, là dov'era solamente confusione e trascorso. Tanto si adoperava in questo lodevole pensiero, che per poco il popolo non l'aveva per sospetto, e si proponeva, posposta l'autorità di lui, di voler fare da se. Importava intanto l'impadronirsi, per aprir l'adito agli aiuti esterni, delle porte, che tuttavia si trovavano in possessione dei Francesi. Il maggior presidio era in quella di San Zeno. Il conte Francesco degli Emilj, che alloggiava nella terra di Castel-Nuovo con due pezzi di cannone, seicento Schiavoni, duemilacinquecento contadini, e fronteggiava un grosso corpo di Francesi e d'Italiani, affinchè non corressero contro Verona, udito il pericolo della sua patria, correva subitamente in suo aiuto, e dopo un sanguinoso conflitto, fatto prigioniero il presidio, recava in sua potestà la porta di San Zeno, entrando con tutti i suoi, il che dava nuovo animo ai cittadini. Facevano lo stesso della porta Vescovo il capitano Caldogno, e di quella di San Giorgio il conte Nogarola. Così gli abitatori del contado potevano entrare liberamente a soccorrere Verona. Giunto il rinforzo del conte degli Emilj, assalivano i Veronesi più fortemente i castelli, massimamente il vecchio, e più fortemente dentro di loro si difendevano i Francesi, certi essendo, che in tanta rabbia popolare, per cui già erano stati morti i non combattenti, da quella difesa non solo dipendeva la possessione dei luoghi, ma ancora la salute, e la vita loro.
Il maggior propugnacolo che avessero, era il castello montano di San Felice. Per questo i Veronesi, principalmente contadini, avevano fatto un grosso alloggiamento a Pescantina, luogo opportuno per recarsi a battere quel castello; che anzi più oltre procedendo, avevano piantato due cannoni in san Leonardo, donde, per essere il sito sopraeminente al castello, continuamente il fulminavano. Dalla parte loro i Francesi uscivano frequentemente a combattere fuori dei castelli. Seguivanne stragi, incendj e ruine. Ardeva parte della città, perchè da castel San Felice, Balland fulminava, anche con palle roventi; ardevano le vicine ville intorno, e la tanto florida un tempo, ed ora infelice Verona, pareva avvicinarsi ad un estremo sterminio. Intanto i villici, che tanto più s'infierivano, quanto più largo sangue vedevano, non confidando intieramente nei rimedj, che potessero fare da se medesimi, avevano di volontà propria spedito corrieri al generale Austriaco Laudon, che, come abbiam narrato, dopo le vittorie acquistate nel Tirolo, era sceso a mettere a romore l'alto Bresciano, pregandolo, si calasse subitamente in soccorso loro. Balland non ometteva di provveder all'avvenire, conoscendo di quanta importanza fosse all'esercito il conservare in potestà di Francia quell'alloggiamento. Però aveva dato avviso a Chabran in Brescia, ed a Kilmaine in Mantova, pregandogli, mandassero sollecitamente gente soccorritrice al presidio pericolante. Victor medesimo era stato avvertito da Balland del pericolo. Anche da Bologna s'accostava una schiera per istringere la città combattente. Giovanelli, considerato il nembo che da ogni parte gli veniva addosso, quantunque Erizzo fosse per arrivare con un rinforzo di genti Schiavone, di armi e di munizioni, aveva aperto una pratica d'accordo con Balland, la quale però non ebbe effetto, perchè il generale di Francia richiedeva, per prima ed indispensabile condizione, che i villani deponessero le armi, si riaprissero le strade alle comunicazioni dell'esercito, il presidio Veneziano alle poche genti di prima si riducesse. Non erano alieni i magistrati della repubblica dall'accettar queste condizioni; ma le turbe di campagna, tuttavia infiammate, non volevano a patto nessuno udire, che avessero a depor le armi: viemaggiormente s'infuriavano.
Nè erano senza frutto le esortazioni degli uomini di chiesa, che rappresentavano, essere mescolata con la causa dello stato la causa della religione. Rammentassero, dicevano, l'oppressione di Roma, gli scherni di Milano, le abbominazioni di Parigi: osservassero con gli occhi loro medesimi i preti fuorusciti di Francia, ridotti esuli e poveri da gente incredula e sfrenata, per non aver voluto contaminare con ispergiuri e con bestemmie la fede loro: questa medesima sfrenata ed orribil gente volere adesso fondar l'imperio loro nell'incorrotta Italia: per questo ingannare gli spiriti, per questo pervertire i cuori, per questo subornare i magistrati, per questo tradire i governi, per questo finalmente avere testè conculcato la dignità della sedia apostolica, primo splendore d'Italia, e principalissimo fondamento della religione: guardassero qual fosse il seguito dell'irreligiosa gente; uomini malvagi aiutarla con gli spìamenti, con le parole, con le armi, con le aderenze; uomini tutti nemici alla religione, perchè senza fede; nemici alle buone costumanze, perchè senza buoni costumi; nemici ai governi provvidi, perchè impazienti di ogni freno, che gli rattenga nelle male passioni loro. Perciò, sclamavano, difendessero fino coll'ultimo sangue, ove d'uopo fosse, la religione protettrice degli oppressi, i governi protettori della religione, ed aspettassero per opera sì pia la gloria del mondo caduco, i premj del mondo sempiterno.
Generavano questi discorsi effetti incredibili; il furore diveniva zelo, che altro non è che un furore meno fugace. Stupivano massimamente, e s'infiammavano le genti ad uno spettacolo maraviglioso, che sorse in mezzo a quella tanto avviluppata tempesta, e questo fu di un frate cappuccino, che predicava ogni giorno sulla piazza, stando attentissimo il popolo affollato ad ascoltarlo. Non desumeva questo frate i suoi argomenti da motivi di religione, ma piuttosto da quanto havvi nella nazionale indipendenza di più dolce, di più nobile, di più generoso; e sebbene le sue parole fossero principalmente dirette contro i Francesi, erano non ostante generali, e chiamando, secondo l'uso antico, barbari tutti i forestieri, predicava contro di loro guerra, cacciamento e morte. Preso per testo l'antico adagio, patientia laesa fit furor:
«Italiani, diceva egli, di qualunque paese, di qualunque condizione, di qualunque sesso voi siate, impugnate le armi: esse son pur quelle dei Scipioni, dei Fabj, dei Camilli; esse son pur quelle degli Sforza, degli Alviani, dei Castrucci: Italiani, impugnate le armi, impugnate le armi, e non le deponete, finchè questi barbari, di qualunque favella essi siano, non siano cacciati dalle dolci terre Italiane. Vedete lo strazio, che fanno di voi? Vedete che il danno a lor non basta? Vedete, che non son contenti, se non aggiungono lo scherno? I rubamenti non saziano questa gente avara; questa gente superba vuole gl'improperj, ed il vilipendio. Sonvi le querele imputate a delitto; evvi il silenzio imputato a congiura: o che serviate, o che non serviate, vi apprestano gl'insulti, o le mannaie, perchè il servire chiamano viltà, il resistere ribellione. Vi accusano di armi nascoste; vi chiamano gente traditrice, come se non fosse maggior viltà al più forte l'usare i fucili ed i cannoni contro i deboli, che ai deboli l'usare contro il più forte gli stili e le coltella! Adunque poichè di stili e di coltella vi accagionano, e poichè un risguardo di Dio, protettore degli oppressi, e l'insopportabile superbia loro vi hanno ora posto i fucili ed i cannoni in mano, usategli, usategli, e pruovate, che anche gl'Italiani petti sono forti contro i rimbombi, e le guerriere tempeste. Credete voi, che