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che macchinasse, e appoco appoco gli andavano levando autorità e riputazione. Era egli al governo militare dello spartimento della Cisalpina, che si chiamava col nome del Rubicone: quivi, tumultuando d'ogn'intorno i popoli, e parendogli occasione favorevole, incominciava ad insorgere. Sparlava di Francia e delle sue leggi, governava, e quanto al civile e quanto al militare, da se medesimo la provincia, non aspettato i comandamenti di Montrichard a cui era subordinato: Montrichard medesimo, e le azioni sue continuamente lacerava: permetteva ai preti le processioni fuori delle chiese, cosa contraria alle leggi della repubblica: si addomesticava con molta famigliarità coi preti, coi frati, e coi nobili, e con loro continuamente parlava del nome Italiano. Montrichard seppe questi maneggi, e però, siccome il caso era d'importanza, gli toglieva l'autorità sul Rubicone, mandando Hullin per arrestarlo. E siccome con Lahoz pareva implicato Pino, altro generale della Cisalpina, ed amico di lui, ordinava che anch'egli fosse dismesso dall'autorità, ed arrestato. Giustificossi facilmente Pino dai sospetti, per modo che restandone i generali di Francia del tutto con l'animo purgato, il ricevettero di bel nuovo in grazia, ed egli continuò a militare con fede e con valore sotto le insegne loro, e fu uno dei più egregi difensori d'Ancona. Ma Lahoz, avuto avviso degli ordini dati per ritenerlo, si era schivato, e mandando fuori apertamente quello, che si aveva concetto nell'animo, gittossi coi popoli sollevati a guerreggiare contro Francia. Tentò anche l'animo degli Austriaci, che conoscendo di quanta utilità fosse per essere l'opera sua a rinforzo loro, l'accettarono molto volentieri, quantunque fosse disertore del reggimento Belgiojoso, ed avesse inferito molti danni all'Austria. Così Lahoz, che aveva seguitato una immagine ingannatrice di libertà coi Francesi, seguitava ora una immagine parimente ingannatrice d'independenza con gli Austriaci. Certamente non piaceva meglio l'independenza d'Italia agli Austriaci, che piacesse ai Francesi la sua libertà, ed in questa strana deliberazione di Lahoz debbesi piuttosto riconoscere lo sdegno di un animo altiero ed irritato, che l'amore della libertà e dell'independenza, che male potevano nascere da Russi, da Tedeschi, da Albanesi, e da popoli sollevati. Comunque ciò sia, o che Lahoz abbia a stimarsi traditore dei Francesi, o amatore dell'independenza d'Italia, andò a congiungersi con le popolazioni d'Urbino e di Fossombrone, che colle armi in mano perseguitavano a morte ed a sterminio Francia, e chi al nome di Francia si aderiva.
A tutte queste genti, contro le quali col suo tenue presidio doveva combattere Monnier, si aggiunsero a tempo opportuno quelle, che Froelich conduceva dallo stato Romano. Lahoz, incitate e meglio ordinate le squadre dei sollevati sulle rive del Metauro e dell'Egino, prendendo a destra dei monti, che chiamano della Sibilla, se ne andava su quelle del Tronto per quivi abboccarsi con Donato de' Donatis, alle bande del quale molte altre già si erano accostate, particolarmente quelle che avevano per condottieri i nobili Scaboloni, Cellini, e Vanni. L'arrivo di un generale tanto riputato per perizia di guerra e per valor di mano, molto confortava questi capi, perchè speravano, che per opera di lui quelle genti indisciplinate e tumultuarie si convertirebbero in esercito regolato ed obbediente. Infatti Lahoz le distribuiva in compagnie, le indrappellava, le squadronava, le rendeva sperimentate negli usi del muoversi, del marciare, del combattere. Concorrevano cupidamente tratti dal nome suo gli Abruzzesi, e fecero massa tale, che da Ascoli passando per Calderola, Belforte, Camerino, Tolentino e Fabriano, si distendevano con guardie non interrotte sino a Fossombrone e Pesaro, cignendo per tal modo tutto il paese all'intorno d'Ancona.
Monnier, non volendo lasciarsi ristrignere nella piazza, usciva fuori alla campagna per combattere fazioni, che non potevano portare che danno per lui, perchè aveva poche genti, e non modo di ristorare i soldati perduti con nuovi, mentre i collegati per avere i mari aperti, e le popolazioni sollevate in lor favore, potevano facilmente aggiugnere genti a genti. Ma qual cosa si debba pensare di questa risoluzione di Monnier, ne seguitava una guerra minuta e feroce, a distruzione d'uomini e di paesi, usandosi dai soldati immoderatamente la licenza. Ascoli, Macerata, Tolentino, Belforte, Fano, Pesaro, ed altre città della Marca, belle tutte e magnifiche, prese e riprese per forza parecchie volte, ora dall'una delle parti, ed ora dall'altra, pruovarono quanto la licenza militare ha in se di più atroce e di più barbaro. Finalmente successe quello, che era impossibile che non succedesse, cioè che moltiplicando sempre più le genti collettizie di Lahoz, e le regolari dei collegati, e venute in mano loro Iesi, Fiume, Fiumegino, Sinigaglia, Montesicuro, Osimo, castel Fidardo, e perfino Camurano, terra posta a poca distanza d'Ancona, fu costretto Monnier a serrarvisi dentro, ed a far difesa dei suoi le mura fortificate di lei. I Turchi ed i Russi, senza metter tempo in mezzo, s'impadronirono della montagnola, donde più oltre procedendo, tosto piantarono una batteria di diciasette cannoni, con la quale bersagliavano il forte dei Cappuccini, il monte Gardetto, e la cittadella.
Furono da questi tiri molto danneggiati gli edifizj della cittadella, restaronne i bastioni rotti, le caserme inabitabili. Al tempo stesso ventidue barche armate di cannoni fulminavano dalla parte del mare contro il lazzaretto, il molo, il forte dei Cappuccini, e contro le tre navi che già furono della repubblica di Venezia, il Beyrand, il Laharpe e lo Stengel, e che Monnier aveva fatto sorgere in sur un'ancora alla bocca del porto. Lahoz, cacciati i repubblicani da monte Pelago, se n'era fatto padrone, e quinci con trincee si approssimava a monte Galeazzo; che anzi fatto un subito impeto contro di esso, vi si era alloggiato, ma venuto Monnier con un grosso de' suoi, lo aveva rincacciato dentro le trincee scavate fra questi due monti. Tali erano le condizioni dell'Anconitana guerra, nè si vedea, che gli alleati potessero così presto restar superiori, perchè quei di dentro si difendevano egregiamente, e di quei di fuori, i Russi erano pochi, i Turchi ed i sollevati per l'imperizia loro, e la mala attitudine dei loro instrumenti militari facevano poco frutto nell'espugnazione della piazza. Ma in questo punto sopraggiungeva Froelich co' suoi Tedeschi, e rendeva tosto preponderanti le sorti in favor dei collegati. Si alloggiava in Varano, e voleva recarsi ad una gagliarda fazione contro il monte Galeazzo, confidando anche, per mandarla ad esecuzione, nell'ajuto dei collettizi di Lahoz. L'intento suo era, acquistando quel posto, di battere più da vicino il monte Gardetto; conciossiachè nella presa di quest'eminenza consisteva principalmente la vittoria d'Ancona. Due volte l'aveva Lahoz con singolare ardimento assaltato, e due volte ne era stato con molta uccisione de' suoi risospinto. Ma Monnier, avendo conosciuto che finalmente, se il nemico stesse più lungamente padrone di monte Pelago, e delle trincee che vi aveva fatte, e che si distendevano verso monte Galeazzo, impossibile cosa era ch'egli potesse conservarsi la possessione di questo monte medesimo, sortiva assai grosso la notte dei nove ottobre per andar all'assalto delle trincee dei sollevati. Si combattè tutta la notte gagliardamente, presero i repubblicani il ridotto principale, chiodarono i cannoni, portarono via le bandiere. Ma un secondo ridotto tuttavia resisteva, sgarando tutti gli sforzi di Monnier. Già il giorno incominciava a spuntare; si conoscevano in viso i combattenti, quando Lahoz impaziente di quella lunga battaglia, usciva dall'alloggiamento, e dava addosso agli assaltatori. Siccome poi era uomo di molto coraggio, precedendo i suoi, gli animava a caricar l'inimico. Quivi era presente Pino, per lo innanzi suo amico fedele, ora suo nemico mortale: scorgevansi, scagliavansi l'uno contro l'altro, sfidavansi a singolare battaglia, tristissimo spettacolo ad Italiani. Ed ecco in questo un soldato Cisalpino prender di mira Lahoz conosciuto, e ferirlo mortalmente di palla di moschetto. Furongli i repubblicani addosso, così ordinando Pino, ed avendolo ferito di nuovo, gli tolsero le armi e lo spennacchio, che a guisa di trionfo portarono in Ancona. Avrebbero anche portato il corpo, che credevano morto, se non fossero stati presti i sollevati ed i Tedeschi a soccorrerlo.
Fatto giorno, e muovendosi gli Austriaci contro Monnier, si ritirava il Francese con tutti i suoi in Ancona, lasciando nel nemico una impressione vivissima del suo valore. Fu condotto Lahoz all'alloggiamento di Varano. Quivi sopravvisse tre giorni, e tra il dolore delle ferite e l'angoscia dell'animo si andò, prima della ultima ora, colle seguenti parole esprimendo: «Che bene il tormentavano le ferite, ma che molto più il tormentava il pensiero, che gli uomini potessero credere, ch'egli avesse tradito la sua patria, e fosse divenuto nemico della libertà. Nè traditore, nè nemico essere della patria e della libertà, e niuno poter avere così scelerato concetto di lui, se non chi le parole vane ai fatti veri anteponesse. Quando, continuava, i Francesi penetrarono in Piemonte, riputandogli io liberatori d'Italia, le aquile imperiali abbandonando, andaimi a porre sotto le loro tricolorite insegne; ma nè mano, nè cuore, nè mente io vendeva ai Francesi: a loro m'accostava libero di me stesso, perchè pretendevano parole di voler difendere e i diritti degli uomini, e l'independenza nostra. Parevami, che alle Francesi legioni tutti coloro accostare si dovessero, che più amavano la libertà che la