Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V. Botta Carlo

Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V - Botta Carlo


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intento: accettommi in grado d'onore Buonaparte, accettommi Joubert, cui gli uomini non potran mai piangere tanto, che non meriti di esser pianto molto più: nè mi fu avaro di affezione e di stima Moreau, Moreau illustre pei prosperi fatti, più illustre per gli avversi; nè m'ebbe a schifo Pino, nè m'ebbe in odio Monnier, contro i quali pure testè io combattei. La pace venditrice di popoli conclusa a Campoformio, la tirannide usata in Cisalpina da Trouvé e da Rivaud mi fecero accorto, che si pensava al trafficare, non a liberare l'Italia. Aggiunsersi occulti sdegni per non meritati oltraggi. Sentiimi trafitto da ferite acerbissime. Vennemi allora in mente il pensiero, e portailo oltre lungo tempo, di cacciare dalla onoranda Italia e Tedeschi e Francesi, perchè noi stessi di noi signori diventassimo. Sapevami, che questo alto disegno già da lunga età s'annidava nel cuore, e nelle viscere tutte degl'Italiani, e parevami che un propizio destino mi chiamasse ad effettuarlo. Dei Francesi io disperava, perchè, oltrechè di essi già l'esperienza si era fatta, l'Italia tutta insorgeva contro di loro. Voll'io quest'Italiani moti prima incitare, poi moderargli, finalmente dirizzargli al grande effetto della liberazione della nostra generosa ed universale patria. Ma pur troppo io vedo, che l'Italiana repubblica si può piuttosto immaginare, che sperare. Troppo siamo noi tra di noi divisi per istati, troppo per leggi, troppo per costumi, troppo per opinioni, nè gl'Italiani usi al giogo da tanti secoli hanno l'antico valore conservato. Combattono animosamente per superstizioni, mollemente per libertà, i popolani mirano al sacco ed alle vendette, i magnati all'ozio ed all'interesse. Nissuna parte sana è più, e chi mira più su che i luoghi della tirannide, o vive vilipeso, o muore ammazzato. Così men muoro ancor io; ma bene tu mi sarai testimonio, o Decoquel» (perciocchè queste parole diceva ad un Decoquel, capitano di Cisalpina, suo amico antico, e che fatto prigioniero dai Tedeschi nell'ultimo fatto se ne stava a lato del moribondo), «tu mi sarai testimonio, ch'io amatore dell'Italia men vissi, e che amatore dell'Italia men muojo». (Mangourit, Défense d'Ancône, t. II.) Ciò detto, passava da questa all'altra vita.

      Froelich, piantate le artiglierìe in luoghi opportuni, e con esse battendo impetuosamente i monti Galeazzo e Santo Stefano, se ne insignoriva. Poi procedendo più oltre con le trincee, si avvicinava al monte Gardetto. Poscia usando il favore di questa vittoria, dava il dì due novembre un furioso assalto a quest'ultimo sito, e correva anche contro la porta Farina, mentre i Russi e gli Albanesi assaltavano la porta di Francia. Sostenne Monnier l'urto con grandissimo valore, e cacciando ne' suoi primi alloggiamenti il nemico, fece vedere, quanto potessero pochi soldati estenuati e stanchi, quando hanno e coraggio proprio, e buona condotta di capo valoroso. Cessarono allora dagli assalti i collegati, solo battevano con le artiglierìe la piazza. Crollavansi alle fulminate palle i bastioni della cittadella, rompevansi le artiglierìe degli assediati, la piazza già difettava di vettovaglie; Froelich compariva grosso e minaccioso a fronte del monte Gardetto. Mandava dentro a fare un'ultima chiamata a Monnier il generale Skal, portatore delle sinistre novelle dei repubblicani rotti in tutta Italia, specialmente delle novità di Napoli, di Roma e di Toscana.

      Monnier, avendo fatto quanto l'onore dell'armi, e la dignità della sua patria da lui richiedevano, inclinò finalmente l'animo al trattare, protestando però, volere solamente arrendersi alle armi Austriache, non a quelle dei Russi, o dei Turchi, o dei sollevati. Patti onorevoli seguitarono una difesa onorevole. Uscisse il presidio con ogni onore di guerra, avesse sicurtà di passare in Francia per dove volesse, fino agli scambj non militasse contro gli alleati, si desse a Monnier una guardia d'onore di quindici cavalieri e di trenta carabine; nissuno di qualunque nazione o religione si fosse, particolarmente gli Ebrei, o in Ancona, o fuori nei dipartimenti del Tronto, del Musone e del Metauro, potesse essere riconosciuto, o castigato, od in qualunque modo molestato nè per fatti, nè per iscritti, nè per parole in favore della repubblica, e chi volesse seguitare il presidio con le sostanze e con la famiglia, il potesse fare liberamente. Fu, e sarà questa capitolazione, egregio e perpetuo testimonio del valore e della generosità di Monnier. Così fra tutti i comandanti di fortezze in Italia, solo Mejean, castellano di Sant'Elmo, abbandonò i repubblicani, e quelli che si erano aderiti ai Francesi: tutti gli altri ottennero, od almeno domandarono la salvazione di coloro, che combattendo, o consentendo coi Francesi avevano contro di se concitato l'odio degli antichi signori. Attraversava il presidio Anconitano, ammirato e riverito da tutti, l'Italia, tornandosene in Francia per la strada della Bocchetta.

      Venuta Ancona in potere dei confederati, i Turchi, ed i Russi si diedero al sacco; quelle misere terre già conculcate e peste da sì lunga guerra prima della vittoria, furono condotte all'ultimo sterminio dopo di lei. Froelich, siccome quegli che era uomo di giusta e severa natura, faceva castigare aspramente gli avari e crudi conculcatori; il che accrebbe i mali umori e le cause di disunione, che già passavano tra la Russia e l'Austria.

      LIBRO DECIMONONO

SOMMARIO

      Stato della Francia dopo le rotte d'Italia. Mala contentezza, e querele dei popoli contro il governo; loro desiderio universale di Buonaparte. Egli arriva dall'Egitto, e, distrutto il direttorio, reca in sua mano la somma delle cose col titolo di primo consolo. Indirizza i suoi pensieri alla conquista d'Italia, si accorda coll'imperator Paolo di Russia, ma non può coll'imperator Francesco, nè col re Giorgio. Suoi vasti concetti. Assedio di Genova, e generosa difesa fattavi dentro da Massena; resa della piazza.

      S'avvicina il tempo, in cui l'Europa messa a soqquadro, ed a terrore dalla sfrenata licenza sotto nome di libertà, debbe far trapasso alla potestà assoluta sotto nome d'imperio; secolo turbolento, ambizioso e superbo, che tormentò gli uomini coi due peggiori estremi, poi loro lasciò la coda dello essere inabili ai benigni e liberi reggimenti. Era il direttorio constituito in assai difficile condizione. Bollivano molte parti in Francia, e tutte si volgevano contro di lui. La nazione Francese, impaziente delle disgrazie per natura, ancor più impaziente per la memoria delle vittorie, dava imputazione, per appagamento proprio, a' suoi reggitori delle rotte ricevute, e della perduta Italia. Moltiplici querele si muovevano in ogni parte contro di loro, e il meno che si dicesse, era, che non sapevano governare; perchè chi gli accagionava di tradimento, e chi del tenere il sacco a coloro, che con le ruberìe avevano ridotto i soldati alla penuria ed impossibilità del vincere. Quell'impeto, che era sorto pei tre nuovi quinqueviri, già era per le ultime rotte svanito. Dominava nei consiglj legislativi, secondo il solito, la perversa ambizione del voler disfare il governo per arrivare ai seggi del direttorio; dal che nasceva, che eglino così nel bene come nel male il direttorio contrariassero, nè vi fosse più modo alcuno di governare. I soldati nuovamente descritti non marciavano, i veterani disertavano per la strettezza dei pagamenti, le contribuzioni non si pagavano, ogni nervo mancava; la guerra civile lacerava le provincie occidentali, la discordia le meridionali; chi voleva le opinioni estreme, chi le mezzane; molti che sapevano molto bene quello, che si volessero, e molti ancora che nol sapevano, desideravano una mutazione. Nè questa mutazione era evitabile, perchè nissun governo può resistere in Francia alle sconfitte accompagnate dalla libertà dello scrivere e del parlare. La fazione soldatesca, che mal volentieri sopportava che il paese fosse retto dai togati, ed alla quale nissun governo piace se non il soldatesco, guardava intorno, se qualche bandiera chiamatrice di novità, ed alla quale potesse, come a centro comune, concorrere, all'aria si spiegasse, proponendosi di sottomettere, prima il governo col nome della libertà, poi il popolo col nome di gloria. Tutte queste cose vedevansi gli uomini savi, nemici della licenza; vedevanle i faziosi, amici della tirannide, e tutti pensavano al ridurle ai disegni loro.

      In questa congiuntura di tempi, sovveniva agli uni ed agli altri il nome di Buonaparte, tanto glorioso per Francia, tanto temuto dai forestieri. Esso solo, dicevano, potere ritornar a sanità, e ridurre in porto le cose dello stato afflitto, esso rinverdire la gloria della desolata repubblica, esso ricuperare le tanto predilette regioni dell'infelice Italia. O fosse tradimento, o fosse incapacità, essere oscurato il nome Francese per immoderate disfatte, e già l'Europa tante volte vinta avventarsi contro le proprie terre di coloro che l'avevano vinta; esso solo, il conquistatore d'Italia, a se medesimo sempre consentaneo, avere alle repubblicane bandiere in lontani e barbari lidi conservato la vittoria; la fama dei prosperi fatti di Egitto consolare in parte gli animi attristati dalla calamità d'Europa; vedersi adesso, quanto un uomo solo possa per la salute degli stati da eccessive forze assaliti, e poichè morto era Joubert, e che Moreau e Massena non bastavano, perchè non richiamarsi in sussidio della patria cadente Buonaparte l'unico? Essere negli altri coraggio, essere ingegno, ma l'animo superatore di ogni


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