La famiglia Bonifazio; racconto. Caccianiga Antonio
ora, si abboccava coi patriotti malcontenti, stringeva la mano ai Carbonari lombardi, comunicava le disposizioni delle vendite del Veneto, e veniva informato degli accordi presi coi fratelli del Piemonte.
Dopo quei ritrovi della setta, scriveva qualche lettera al maestro Zecchini e la gettava alla posta colla certezza che sarebbe aperta dalla Polizia la quale violava tutti i segreti. Egli si godeva a corbellare i commissari e il governo, parlando di prati e di vacche svizzere, di canape e di bachi da seta. Raccomandava all'amico le zucche e le patate, e gli prometteva al ritorno le più utili informazioni sulla coltura delle rape.
Dagli amici di Milano ebbe lettere di raccomandazione per qualche coltivatore, e per qualche possidente austriacante della Brianza, sempre collo scopo d'ingannare la vigilanza della polizia; e si recò a visitarli, occupandosi di vigneti e di stalle, benedicendo i benefizii della pace, che si godevano a merito del regime paterno dei buoni Tedeschi. Prese alloggio in un grande albergo, assunse delle informazioni che lo fecero conoscere per esperto agricoltore.
Poi lasciando gran parte del suo bagaglio all'albergo, e raccomandando all'albergatore le sue preziose sementi di bietole, cavoli e carote, annunziò una gita nei dintorni per visitare le colture, e partì solo e pedestre, munito d'una semplice valigietta alla mano. Prese la direzione opposta a quella che intendeva di seguire, e girando per certi viottoli deserti, assicurandosi che nessuno lo vedeva, trovò la sua strada, che lo condusse in un angolo romito delle colline, ove sorgeva una modesta casa di campagna quasi nascosta dai tigli, dai platani, e dalle robinie.
Abitava in quella dimora un suo antico commilitone, un valoroso colonnello degli eserciti napoleonici, un fiero soldato, un ardente patriotta, che non aveva mai potuto comprendere come gl'Italiani si fossero rassegnati a subire l'umiliazione d'un governo straniero. Acerrimo nemico dell'Austria, egli congiurava come capo carbonaro contro l'aborrito governo, ma sapeva operare con tale avvedutezza che non comprometteva mai nessuno, apparecchiava le riunioni, dirigeva la congiura con sommo accorgimento, e metteva tanta astuzia nel gabbare i sospetti del governo, nello sviare le ricerche della polizia, nell'abbindolare le commissioni speciali, che il suo grande maestro, il generale Napoleone, non avrebbe impiegata tanta avvedutezza nell'apparecchiare il piano d'una battaglia.
Odone Palanzo era un antico cospiratore, ancora giovinetto si era acceso di entusiasmo al primo raggio della nascente libertà. La portentosa discesa del San Bernardo, compiuta dall'esercito francese condotto dal generale Buonaparte, la sua improvvisa comparsa in Italia, la battaglia di Marengo che liberava il Piemonte e la Lombardia dagli Austriaci, esaltarono lo spirito liberale del giovane italiano, il quale detestava il regime debilitante del governo straniero che conservava sotto il giogo una popolazione rassegnata, e non curante della sua sorte nè dell'onore del paese.
Egli non rifiniva di ammirare e celebrare l'eroica difesa di Genova, il carattere e le prodezze dei vincitori dei Tedeschi, l'impassibilità di Massena durante l'assedio, la fermezza di Lannes sul campo di battaglia, la carica di cavalleria di Kellermann, la risoluzione fortunata di Desaix. E quando tre giorni dopo di quella famosa battaglia Buonaparte entrava in Milano sul far della sera, il giovane lombardo si trovava fra quella folla plaudente che gettava fiori nella carrozza del primo Console, che procedeva lentamente nelle strade accalcate e illuminate a giorno.
Allora si arruolò come semplice soldato, quantunque avesse moglie e una bambina, fece il giro d'Europa, guadagnò i suoi gradi ad uno ad uno, da caporale a colonnello, fu ferito in varie battaglie, e non depose le armi che dopo l'ultima campagna di Russia, dove ridotto all'estrema miseria, lacero, esausto dalla fame, e quasi cieco, sarebbe morto sulla neve se non avesse incontrato il capitano Bonifazio che lo sostenne, lo guidò, lo nutrì di crusca bollita e di carne di cavallo; e attraverso a mille pericoli poterono entrambi ripassare la Beresina, dopo le più strane venture. Giunti in Polonia come due fantasmi da far paura a vederli, fecero una lunga dimora negli ospitali, fino che ristabiliti in salute, ritornarono a Parigi, e ripresero servigio fino alla caduta di Napoleone.
Rimandati in patria, il capitano Bonifazio accompagnò l'amico alla casetta di Brianza, dove il colonnello lo presentò alla famiglia come il suo salvatore.
La moglie era un'ottima donna; e la figlia Maddalena, una bella ragazza, con due grandi occhi che ne rivelavano la bontà, era stata allevata dalla madre alle cure domestiche e rurali. Entrambe vivevano modestamente colle rendite di alcune terre che stavano intorno all'abitazione. Vedevano poca gente, e assai di rado il loro capo di casa, il quale di tratto in tratto compariva all'improvviso, si fermava alquanti giorni, e spariva. Scriveva poche lettere e laconiche, sempre da nuovi paesi, da varie parti d'Europa. Il colonnello aveva un fratello più giovane, che si fece parimenti soldato, e questi alla caduta di Napoleone prese servizio nel piccolo esercito piemontese.
Quando furono di ritorno dalla Francia invasa dagli stranieri di varie regioni, il colonnello volle che il capitano si riposasse alcuni giorni nella sua casa, dove si godeva una pace serena, in quel paradiso della Brianza. Quel silenzio, quella solitudine sotto gli alberi, producevano l'effetto d'un delizioso calmante negli animi ardenti di quei soldati avezzi a tanti frastuoni e a tante stragi. A poco a poco il loro spirito esaltato dalle lotte si raddolciva, il loro sangue rallentava il suo corso, il loro cuore si apriva a nuove aspirazioni verso la tranquilla felicità della pace domestica. Finalmente il colonnello sentiva il bisogno di riposo, in quel nido fortunato, fra il sorriso sereno d'una buona moglie, e la fiorente gioventù d'una diletta figliuola.
Il capitano Bonifazio che aveva perduto tutti i suoi parenti, si arrestava ben volentieri in quel ridente soggiorno, prima di rientrare nella solitudine e nell'isolamento che lo attendevano nella sua casa deserta.
Gli occhi profondi di Maddalena lo colpivano vivamente, la sua voce gli penetrava nell'animo, i suoi lineamenti gli lasciavano nel cuore una indelebile impressione, ma egli non osava guardarla che di soppiatto, quando era sicuro di non esser veduto da lei; quella soave fanciulla gli pareva cosa divina, e si giudicava troppo ruvido soldato per credersi degno di meritare il suo affetto.
I due commilitoni passavano alcune ore seduti sopra un banco rustico del giardino, colla pipa in bocca, rammentando le loro geste, e quando passava Maddalena, Bonifazio si alzava in piedi, ritirava in fretta la pipa, e faceva il saluto militare come davanti un generale.
Alla sera quando si ritirava nella sua camera, invece di andare a letto a dormire si sdraiava sul canapè, pensava lungamente alla Maddalena, ne faceva il paragone colle altre donne che aveva incontrate nei vari stati d'Europa, e la trovava più bella, più interessante e più adorabile di tutte. Era stato piuttosto libertino, intraprendente, audacissimo col bel sesso, e poteva vantarsi di ardite conquiste tanto sui campi di battaglia che nelle alcove; ma quelle erano donne, e questa era un angelo, ed egli si trovava ospite da un amico, del quale gli era sacra ogni cosa, e più di tutto la famiglia.
Così passavano i giorni, e Bonifazio si lasciava vivere in pace, in una specie di allucinazione, e di ebbrezza felice, e chi sa quando avrebbe pensato di andarsene allorchè la lettera d'un avvocato di Treviso lo chiamò al suo paese per affari urgenti.
Il colonnello non voleva lasciarlo partire, le signore lo pregavano di non abbandonarle, e gli parve perfino di scorgere una lagrima che brillava come un diamante nei grandi occhi di Maddalena; ma la lettera era pressante, e poi sentiva anche il bisogno di fuggire da quell'amore soffocato che quasi quasi gli pareva un insulto alla casa dell'ospite e dell'amico; e partì.
L'ultima parola del colonnello fu questa: – Siamo intesi, facite judicium et justitiam… e l'altro rispose:
– Pubblice felicitatis incrementum…
Erano parole del diploma guelfo dei Carbonari.
Pochi giorni prima si erano abboccati coi fratelli della setta, in un sito deserto, e avevano giurato nuovamente di liberare la patria dal giogo straniero, o di morire.
Nel viaggio di ritorno si arrestò a Brescia, Verona, Vicenza, Padova; fece una scappata a Rovigo e a Venezia, e in tutte queste provincie s'incontrava coi federati, faceva dei proseliti, formava nuovi centri carbonari, allargava le diramazioni nei principali villaggi, e stringeva i nodi d'un'ampia rete che doveva serrare nelle sue maglie l'aquila a due teste.
Poi rientrò tranquillamente nella casa paterna, solo e disarmato, ma profondamente convinto che presto o tardi ma di certo, l'Italia sarebbe unita,