La famiglia Bonifazio; racconto. Caccianiga Antonio
agricole, nominò tutti i paesi, meno quello dove aveva soggiornato, e partì per Milano carico di sementi. Di là colle solite fermatine perfettamente dissimulate, e colle relative conferenze segrete coi principali centri carbonari, si diresse a piccole giornate verso il Veneto.
Il maestro Zecchini e il fedele Mosè lo aspettavano con curiosa ansietà. Forse ritornava colla sposa! Era vero che non aveva dato alcuna disposizione in proposito, ma la casa era in ordine, e il parco era degno di ricevere qualunque signora. Mosè non voleva credere a questo precipizio, ma il maestro Zecchini non si sorprendeva di niente, anzi si aspettava ogni bizzarria da quell'originale, che gli aveva annunziato il suo matrimonio con tanto laconismo.
Finalmente giunse una lettera che fissava il giorno preciso del ritorno, e siccome il capitano era esatto come un cronometro, così il domestico e l'amico stavano ad aspettarlo sulla porta quando si udirono i sonagli della vettura che riconduceva il pellegrino.
Le disposizioni da prendersi per il prossimo matrimonio furono nuovo argomento di conversazioni e di diverbi fra il maestro e il capitano. Zecchini metteva fuori degli utili consigli per gli arredi, Bonifazio lo canzonava; Mosè dava sempre ragione al padrone, il quale dopo di aver ripetutamente disapprovato i piani dell'amico finiva qualche volta coll'adottare quei consigli che aveva respinti con ironia e indignazione. Ma si conchiudeva sempre la pace al tavolo del terziglio, ovvero si cambiava argomento di discussione raccogliendo le diatribe sulle carte da giuoco.
III
Durante l'estate venne apparecchiata la stanza nuziale, e furono acquistati tutti gli arredi necessari per abbellire la casa, e renderla degna di accogliere una donna gentile. La corrispondenza correva regolare fra gli sposi, e il capitano seguitava ad occuparsi di agricoltura, e faceva delle gite a Venezia e altrove, per completare i mobili della casa, mascherando con studiate apparenze le trame della congiura, e i ritrovi dei Carbonari.
Non riceveva mai nessuno, e solamente in una sera di settembre, sull'imbrunire, un signore smilzo, in occhiali, si presentò al cancello della villa, e chiese del capitano. Gli fu aperto da Mosè che lo introdusse nel salotto, e corse a chiamare il padrone.
Il capitano parve sorpreso assai di quella visita. Rimasero un'ora in conferenza; poi, fatto attaccare il cavallo, partirono insieme col legno di casa. Il padrone prendendo in mano le redini e la sferza, avvisò Mosè che non sarebbe tornato che dopo la mezzanotte, e dicesse al maestro che era andato a ricondurre un amico, venuto a fargli visita.
Un mese dopo questo fatto, insignificante in apparenza, successero dei casi che impressionarono fortemente il Bonifazio. Il maestro capitava ogni sera colle novità del giorno: arresti di persone stimate ed illustri di Milano, e in altre parti di Lombardia, e del Polesine.
Si parlava dovunque di società segrete scoperte, di Carbonari fuggiti o messi in prigione. Il capitano crollava le spalle, tentennava la testa, brontolava, voleva mostrarsi indifferente, ma poi domandava le più minute informazioni. Quando suonavano il campanello stava sopra pensiero fino che non sapeva chi fosse; sbagliava le carte e ne dava la causa al maestro, il quale sbalordito dall'accusa fissava tanto d'occhi in faccia del capitano, che lo rimbrottava di guardarlo in quel modo, con quello sguardo da inquisitore. E si bisticciavano più del solito.
Il giorno dopo, il capitano si chiudeva in camera, lo si sentiva aprire degli armadi, scartabellare delle carte, nelle ore che era solito di stare in giardino.
Quella sera, il maestro che veniva come il solito a fare la partita, fiutava l'aria della stanza, guardando intorno con inquietudine.
– Che cosa avete, che torcete il naso? gli chiedeva il capitano.
– Sento un odore di bruciaticcio, gli rispondeva, e guardo se c'è qualche cosa che prenda fuoco.
– Sono delle vostre solite idee!.. io non sento niente… non c'è niente.
– Eppure c'è qualche cosa di bruciato! insisteva l'altro, andiamo a vedere.
Il capitano s'impazientava, montava in collera, lo accusava d'essere un visionario, lo sgridava e lo consigliava a desistere dalle sue inquietudini, e l'obbligava a sedere in quiete, colle carte in mano.
Ma la partita era turbata dalle insistenti aspirazioni nasali del maestro, che continuava a dimenarsi sulla seggiola, e a mostrarsi pauroso del fuoco. Il capitano fremente lo tacciava d'uomo ostinato, fino alla cocciutaggine.
Ma quando il maestro partì fece spalancare tutte le finestre e le porte, affinchè uscisse ogni odore sospetto, e volle che Mosè tirasse fuori dalla stufa delle carte bruciate incompletamente, e che le riducesse in cenere, ma persisteva nel sostenere che non ci poteva essere nessun odore da fumo.
– Ma quel benedetto uomo, egli ripeteva, vuol mettere il suo naso da per tutto!
Mosè, come al solito, dava ragione al padrone, e vuotando la stufa delle carte bruciate, continuava a dire che non c'era il minimo odore di fumo.
Poi il capitano diede degli ordini precisi e segretissimi, per delle possibili contingenze. «Che il cancello del giardino sia sempre chiuso a chiave, anche di giorno, in modo che se qualche persona vi si presentasse per entrare, sia costretta ad aspettare che si vada a prender la chiave, da lui stesso tenuta in saccoccia. La porticina in fondo del brolo, che mette ai campi, sia sempre aperta di giorno e di notte.»
Il matrimonio che doveva aver luogo in novembre fu rimandato di comune accordo a tempo più opportuno.
C'era pericolo imminente da ogni parte. Furono prese infinite precauzioni per non entrare nelle trappole tese dai nemici, ma non tutti i sorci hanno gli accorgimenti necessari per evitare le insidie, e burlarsi degli insidiosi; molti furono accalappiati, ed era indispensabile di non muoversi, di non dar segno di vita, per non eccitare sospetti.
Il maestro che ignorava la dilazione del matrimonio aveva apparecchiato il suo bravo sonetto per le nozze dell'amico, nel quale non mancò di rammentare le prodezze guerriere dello sposo, e la bellezza della sposa (che non aveva mai veduta) per tirar fuori il solito paragone di Venere e Marte. Gli pareva di aver fatto un lavoretto abbastanza degno dell'occasione, e portò il manoscritto alla I. R. Censura per ottenere il permesso di stamparlo.
Non lo avesse mai fatto! il censore lo fece chiamare in ufficio, gli diede una solenne lavata di testa, e gli osservò:
– Anche senza badare all'indole sovversiva di tutto il sonetto non potrei lasciar passare alcune parole proibite, come Italia, patria, libertà; e poi che diavolo si è messo in mente di parlare di Buonaparte e di chiamare l'Italia una nazione? dove vede la nazione?.. mi dica…
Il maestro tutto confuso gli rispose:
– Sono stato trascinato dalle rime: Marte Buonaparte; Napoleone-Nazione. Sapeva di far piacere allo sposo che fu soldato di Napoleone.
– Peggio che peggio! Ella ignora dunque che Napoleone Buonaparte fu nemico dell'Austria?..
– Fu genero del nostro venerato Sovrano, di Sua Maestà l'Imperatore!..
– Senta, le dò un consiglio da padre, lasci la politica agli uomini di Stato… e a chi ha voglia di andare in prigione; e se vuol fare il poeta, quantunque io non ne veda la necessità, lasci stare i cavalli di battaglia, e salga al Parnaso col modesto ronzino che serve al suo pievano per andare alla congrega, e cavalchi tranquillamente nella pacifica Arcadia, che non ha mai fatto male a nessuno.
E così dicendo lacerò il sonetto incriminato, lo gettò nel cesto, e congedò il poeta con uno sguardo severo accompagnato da queste poche parole:
– Si tenga per avvertito!
Il maestro Zecchini uscì dall'ufficio di Censura annichilato.
Gli tremavano le gambe, si riteneva fortemente compromesso, vedeva già il commissario di polizia e gli sbirri che picchiavano alla sua porta, che lo perquisivano, lo arrestavano, lo conducevano in prigione.
Corse difilato dal capitano a confessargli la sua imprudenza, e a domandargli consiglio.
– Che cosa vi è passato per la mente? gli domandò il Bonifazio, in collera. Ignorate dunque che senza patria non si ha il diritto nè di scrivere, nè di pensare? Avete commesso una vigliaccheria degnandovi di sottomettere i vostri