La plebe, parte II. Bersezio Vittorio

La plebe, parte II - Bersezio Vittorio


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gli volevo bene, come ad una creatura ragionevole… e diffatti era tale più che certi bestioni d'uomini… Basta, lasciamola lì… Dunque un bel giorno, come fu, come non fu?.. Io già ho sempre creduto che sia stato quello zoticone del mi' uomo che è il più grossolano del mondo… Allora egli abitava ancora meco… che ora per fortuna di Dio sta lontano e d'un bel tratto… Fuori di città sui viali, nella casa del signor Benda, se lo conosce, quel gran fabbricante di ferro…

      – Ah, ah! Esclamò il poliziotto che parve prestare alcuna attenzione a questa circostanza.

      – Dunque un bel giorno gli si lascia aperto l'usciolo della gabbia (al cardellino), ed egli frrrt! se ne volò via per la finestra che vallo a vedere!..

      – O diavolo! Esclamò Barnaba giungendo le mani con vivo interesse, e sedendo intanto sopra un trespolino ch'era lì presso, per ascoltare più divotamente la mirabile storia.

      – Lo credevo perso senza più redenzione, quando la Marta – una mia amica e vicina che quella volta ne fece per miracolo una di bene, perchè è la più melensa e sragionata femmina che sia sotto la luna… e una lingua poi! oh quanto a lingua non dico altro che darebbe dei punti alle forbici del sarto – basta, la Marta venne ad avvisarmi in gran segreto che comare Polonia, la rivenditrice di pignatte e pentoloni che sta di faccia, aveva nelle sue gabbie… – la tiene delle gran gabbione tutte piene di ogni fatta uccelli che abbia creato Iddio – la aveva un uccello di più, e precisamente un cardellino. E la cosa era naturale. Il mio Fifì – lo chiamavo Fifì – era venuto per tornare a casa sua, s'era fermato sulle gabbie di Polonia, e quella sorniona lo aveva acchiappato e poi fatto mostra di niente… Dunque io corro da Polonia, e fra cinque o sei cardellini che la ci aveva – noti bene cinque o sei – riconosco subito alla fisionomia Fifì, e non c'è stato santi che tenessero, me lo feci restituire e la Polonia ci dovette stridere.

      – Cospetto! L'ammiro di molto. E quel prezioso cardellino?

      Sora Ghita prese l'aria dolorosa di colui a cui si riapre un'antica piaga dell'anima.

      – Mi cascò un giorno nel beverino e mi si annegò.

      Barnaba assunse un aspetto adatto alla circostanza.

      – Che disgrazia!

      – Or dunque, che cosa dicevo?.. Ah!.. Nel veder Lei, mi parve subito di riconoscere qualcheduno già visto altra volta. Di certo Lei abita da queste parti… To'! Badi se la indovino… Lei è il fumista e stufista che sta alla cantonata di via Santa Teresa.

      Il poliziotto fece il suo sorriso più grazioso ed adulatore, per temperare la negativa con cui doveva rispondere.

      – No, non sono il fumista.

      – Per bacco! Avrei giurato… Si rassomigliano come le due chiappe d'una mela… Ma senza fallo Lei la deve abitare in questi quartieri.

      Barnaba col medesimo sorriso rispose:

      – Veramente no… Abito anzi piuttosto lontano… Però (s'affrettò a soggiungere) pratico frequente da queste parti.

      – Ecco! Appunto! Gli è ciò. Volevo ben dire! E Lei dunque cerca di qualcheduno? Mi pare che abbia detto che cercava di qualcheduno.

      – Sì. Mi fu supposto che in questa casa ci deve stare o ci deve venire alcune volte un medico, un bravo medico, giovane ed elegante, che si chiama… che si chiama… Ho lì il nome sulla punta della lingua… Non saprebb'ella aiutarmi, madama?

      Ghita appoggiò al suo mento onorato d'una lanugine che quasi poteva chiamarsi barba, la punta di uno de' suoi ferri da calza, in atto di profonda meditazione.

      – Un medico? Diss'ella. No, veramente qui non ce ne abita nessuno di medici… Ah sì… Al secondo piano c'è un dentista.

      – No, non gli è ciò.

      – Al primo c'è un notaio con sua moglie e sua madre… Liti del diavolo fra la suocera e la nuora. Un giovane di mercante che abita uscio ad uscio fa gli occhi dolci a quest'ultima… La Marta dice che li ha trovati insieme, lei e lui, una mattina in una strada scartata. Basta! Non facciamo giudizi temerarii come fa quella maldicente d'una Marta. Di sopra dunque c'è il dentista e un impiegato al Ministero, un brav'uomo che ha mezza dozzina di ragazzi. Al terzo piano abitano il calzolaio che ha bottega qui vicino al portone, il pizzicagnolo ed una di quelle donne che vanno ad impegnare per altrui la roba al Monte di Pietà. All'ultimo piano poi c'è una frotta di giovani…

      Barnaba si accostò alla vecchia ciarliera con un interessamento che era più vero di quello manifestato fino allora.

      – Giusto! Il medico che cerco sarà forse tra quelli, od almeno sarà loro conoscente, e verrà a vederli.

      – No: disse la donna, tornando a riflettere. Di medici non ce n'è punto. C'è un pittore, che anzi è quello che ha preso a pigione tutto il quartiere.

      – E si chiama? Domandò con aria innocente il poliziotto.

      – Antonio Vanardi.

      – Ah bene… L'ho sentito nominare… E con lui ci stanno parecchi…

      – Tre… Anzi adesso quattro… Ma nessuno di loro è medico. Due devono essere avvocati… Ma di quegli avvocati di cui ce ne regge mille sopra un ramo… Credo che non abbiano mai visto l'ombra d'un cliente… Scrivono su per le gazzette e stampano libri o qualche cosa di simile… Spiantati, in una parola.

      – E si chiamano? Tornò a domandar Barnaba colla medesima aria innocente.

      – Uno, che ha l'aria d'essere un po' più innanzi degli altri negli anni, si chiama Romualdo, l'altro Giovanni Selva. Il terzo, che non è punto avvocato nè altro, ma fa lo scrivano pubblico e scrive suppliche e poesie, ha nome Maurilio Nulla: un originale a cui nessuno è capace di far dire quattro parole… È rientrato poco fa in casa, e l'ho visto passare attraverso il vetro del finestrino… Ma non c'è pericolo che mai e poi mai dica uno straccio di parola di saluto.

      Barnaba si stampava tutti questi nomi nella memoria. Il giovane ch'egli aveva visto nella bettola di Pelone, poi sotto l'atrio del palazzo dell'Accademia Filarmonica, dove aveva fatto un cenno di meraviglia incontrandosi col dottor Quercia; quel giovane chiamavasi dunque Maurilio Nulla, era scrivano ed abitava insieme con due che alla polizia erano già noti da tempo come liberali e, secondo s'usava dire, patrioti rivoluzionarii.

      – E ce n'è ancora un quarto? Soggiunse Barnaba per provocare la portinaia a parlare.

      – Sicuro, da poco tempo… Saranno tre mesi tutt'al più… Questo è un forastiere… un italiano. Parla così bene che par sempre un libro stampato… È cantante e fa da secondo… com'è che si dice?.. secondo baritono al teatro Regio… Si chiama Medoro Bigonci… È venuto ad affittare una camera in casa del pittore, e non so davvero dove diavolo lo abbiano cacciato… Di medici fra tutti costoro non c'è nemmanco l'ombra. Forse gli è qui nella casa vicina che Lei dovrebbe andare. Ci sta un flebotomo che un tempo aveva anche la bottega da barbiere, ed ora s'intitola dottore. Un uomo grande e grosso, colla faccia color del vino…

      – No, no, non è quello che cerco io: disse Barnaba. Io intendo anzi parlare d'un bel giovanotto che veste proprio coi fronzoli e porta due baffetti neri. Mi si diceva che qualche volta venisse a trovare quei giovani che abitano col pittore, e sopra tutto quel cotale che fa lo scrivano.

      – Ah ah! Esclamò la portinaia come illuminata da una nuova idea. Sì che ci viene, ed anco di frequente, un giovane signore, ma signore per davvero e coi baffetti, ma questi baffi invece che neri sono biondi, e chi li porta non è medico altrimenti, ma avvocato ancor egli come il signor Selva e il signor Romualdo. E non è altri che il figliuolo del signor Benda il fabbricante presso cui è allogato il mi' uomo.

      – Viene di sovente?

      – Soventissimo. E ci si ferma per delle ore: Certe volte io ho già chiuso il portone, sono già andata a letto, sono già bella e addormentata che sor Francesco… l'avvocato Benda si chiama Francesco… non è ancora partito.

      – Capisco. Una frotta di giovani. Faranno delle baldorie, cene,


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