Due amori. Farina Salvatore

Due amori - Farina Salvatore


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Era riuscito a trafugare alcune nocciuole prevedendo che gli sarebbe toccato il pane ed acqua, e rovesciò le tasche sul nostro desco.

      Così fra i motteggi e le confidenze passarono quei tre giorni.

      D'allora in poi fummo indivisibili.

      II

      Dodici anni appresso io mi trovava a Milano. Il collegiale s'era fatto uomo; e tuttavia io ripensava con mestizia a quei giorni di delirio. Da gran tempo non aveva saputo più novelle di Raimondo. Egli era partito per un lungo viaggio otto anni prima, quando, rimasto solo per la morte d'un vecchio zio che avealo educato, eragli nata vaghezza di veder cose nuove. L'ultima sua lettera recava l'impronta d'una melanconia profonda, inguaribile. Dicevami come egli viaggiasse in compagnia d'un indiano e come andasse mendicando la pace di borgo in borgo, e non sapesse risolversi a far ritorno in Europa.

      Trovavasi allora a San Cosmo, borgata del Paraguay, e colà avrei io voluto rispondergli e pagargli tributo di conforti, se la sua vita nomade non m'avesse tolto ogni speranza di fargli pervenire la mia lettera.

      Così erano passati due anni. Un mattino del 18… udii picchiare all'uscio della mia cameretta in un modo noto.

      –Venite innanzi, Simplicio, gridai dal mio letto appuntando i gomiti sul guanciale.

      Il vecchio portinajo entrò e mi porse una lettera; il cuore mi battè frequente; io aveva riconosciuto i caratteri di Raimondo.

      Dicevami un mondo di cose-tutte meste; ma ciò che mi riconfortava era la promessa del suo ritorno in Italia. Sarebbe partito da Maldonado a bordo del bastimento francese La vitesse, contando di toccare Livorno due mesi dopo.

      Immaginate la mia gioja. A calcoli fatti egli non doveva trovarsi a gran distanza da me, e al più tardi fra otto giorni io sperava di riabbraciare l'ottimo amico dell'infanzia.

      Le mie speranze non andarono fallite; cinque giorni dopo io riceveva da Livorno avviso del suo arrivo; e il domani egli era meco.

      III

      Egli era meco. Ma posso io dire che egli fosse ancora quel Raimondo d'una volta, il collegiale taciturno e severo, ma ad ora ad ora confidente ed entusiasta? Io cercavo indarno sotto la sua nera barba le note linee di quel volto pallido ed affilato-il suo sguardo era sempre mesto, ma avea perduto quel fuoco che irraggiava a sprazzi vivissimi di luce la sua testa. Ov'erano quelle espansioni ingenue d'una volta, e quel tenero e soave raccoglimento alle speranze?

      –Quanto siamo mutati! mi disse egli un giorno fissandomi in volto impensierito.

      –Tu più di me, gli risposi.

      –Lo credi. Ma provati a rimontare la corrente degli anni e non t'incresca di rovistare nelle ceneri di quello che fu già di te medesimo.

      –Ho paura di farlo.

      –Hai ragione, le sono ubbie. Il tempo fa il suo mestiere. Oggi abbiamo i peli sul mento; fra una ventina d'anni saremo canuti-ed ecco la vita.

      –L'anima sola non muta, aggiunsi tocco melanconicamente dalle sue parole.

      –L'anima!.. ripetè distratto. Tu ci credi…

      Fui atterrito da questo dubbio.

      –Ma che cosa dunque è avvenuto dentro di te? Qual terribile urto ha spezzato la tua fede così salda?

      –La mia fede! So d'averne avuto una. V'è un'età nella vita in cui si è fanciulli; allora è un bisogno; si guarda il cielo, si vedono le stelle, si respira il profumo dei fiori, si è ignari del resto, e si crede.

      Quel giorno non parlammo più oltre.

      Quando fui solo, ricordando Raimondo e i nostri anni di collegio, fui tratto a pensare ad Eugenio. Egli si era recato da qualche anno a Roma per perfezionarsi nell'arte del disegno, e vi aveva fama di buon pittore. Gli scrissi una lunga lettera e gli palesai, come la fantasia me lo raffigurava, lo stato dell'anima di Raimondo, i suoi dubbii, le sue ansie. Ma non osai dirgli come io lo credessi tanto mutato da essere fatto insensibile all'affetto; non osai dirgli, e non osavo dirlo a me stesso, come io riputassi affievolita d'assai nel suo cuore quell'amicizia che già ne aveva uniti così teneramente.

      Quand'ebbi chiuso quel foglio, lo rimirai buona pezza in silenzio. E in un momento di terribile scetticismo temetti anche d'Eugenio.

      Che importa egli mai l'aversi ricambiato un saluto ogni mese, se due cuori han cessato di battere vicini da gran tempo? Ahimè! cotesto è il destino delle amicizie strette nell'infanzia. Ci separiamo fra le lagrime, e portiamo scolpita nel petto l'immagine diletta; il tempo ci trasforma e ci guasta, ma quell'immagine non ci abbandona giammai. Di tal guisa noi viviamo in qualche parte la vita d'allora, e alimentiamo col pensiero il nostro affetto. Ma nissuno di noi pensa che l'oggetto del nostro amore non è più; e che la pallida larva che avanza è menzognera. Però se egli avviene che i cadaveri si scontrino per via, e non si riconoscano, e ricordino appena d'essersi amati molto, allora essi scuotono il capo sfiduciati e si chiamano ingrati a vicenda.

      IV

      Il giorno successivo, appena fu l'alba, mi recai all'abitazione di Raimondo.

      Era la prima volta che io vi andava; nè sapevo dire perchè vi andassi, e quale fosse l'animo mio. Ma so che così facendo io rispondeva ad una imperiosa esigenza del mio cuore.

      Ho veduto degli uomini arrestarsi impensieriti dinanzi alle rovine di Pompei, e trepidare per un frammento di capitello novellamente scavato, come se egli ridestasse in loro i teneri ricordi d'un'età passata.

      Quanto più a ragione non dovremmo noi commuoverci d'un sentimento severo di mestizia, accostandoci alle rovine di un cuore che ha sofferto ed amato, se quelle doglie e quell'amore ci hanno appartenuto in qualche guisa?

      Era forse questo sentimento dissimulato che mi guidava in quell'ora mattutina al fianco di Raimondo.

      Come io fui giunto al quartiere remoto che egli abitava, mi arrestai dubitoso; e parvemi imprudente il visitarlo a quell'ora. Ma poi che io mi ostinava a voler cancellato col pensiero il tempo che ci aveva tenuto divisi, conchiusi che il mio Raimondo di collegio non si sarebbe offeso di questa licenza, e in due salti fui ai terzo piano.

      Fu ad accogliermi una specie di negro, di cui non era facile a primo aspetto indicare la razza. Vestiva all'europea, ma i suoi capelli abbandonati sulle spalle ondeggiavano in nerissimi anella. Di corpo era snello e di statura men che mezzano; ma a traverso la sua giubba di lana, e i suoi larghi calzoni di tela, si poteva indovinare la meravigliosa proporzione delle sue membra.

      Mi salutò con un cenno del capo, come uomo che non è troppo avvezzo agli omaggi; e come ebbi posto piede nell'anticamera, mi rivolse la parola con accento gutturale in un linguaggio tra lo spagnuolo e l'italiano.

      –Sia il benvenuto nella casa del mio signore il visitatore del mattino.

      Poi senza dir altro mi accennò una sedia e si allontanò.

      Sorpreso di questo strano servitore, io non aveva avuto tempo di dirgli il mio nome perchè Raimondo fosse prevenuto. Se non che il negro fu di ritorno in un baleno, ed accostatosi a me mi disse a voce bassissima:

      –Il signore mio padrone dorme-il signore che ha visitato la casa del mio padrone può aspettare ch'ei si svegli.

      Compresi ben tosto come con costui mi sarebbe tornata inutile ogni insistenza; d'altra parte il timore di riuscire importuno, e una certa curiosità d'esaminare alcun tempo quel personaggio misterioso mi consigliarono d'aspettare.

      –Attenderò, dissi al negro.

      –Il mio signore vuole che gli amici suoi sieno ricevuti come il signore medesimo. Il visitatore è egli l'amico del mio signore?

      –Lo sono.

      –La parola dell'amico del mio signore è buona; l'amico del mio signore comandi, e sarà obbedito.

      –Il vostro nome?

      –Charruà, della tribù dei Charruà, nato sulle rive dell'Uruguay.

      –Voi siete dunque indiano? Ed abbandonaste il vostro paese?

      –Lo


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