Due amori. Farina Salvatore
dicendo egli levava in alto le braccia nude, facendone spiccare i muscoli poderosi.
–Ma non lasciaste voi parenti colaggiù e come abbandonaste la tenda del padre vostro in riva all'Uruguay?
-La tenda del padre mio, le sue armi, e il suo poncho 1 sono state seppellite con lui nel monte-lo Charruà che mi ha svegliato nel mondo si è addormentato per sempre. Io mi sono nascosto per due giorni nella capanna; poi venne a me un compagno, mi pizzicò le carni delle braccia e vi confisse le scheggie della canna. Poi andai nel bosco; l'yaguarstè e le altre bestie feroci ebbero paura del buon figlio e fuggirono. Allora io ritornai nella capanna, levai le scheggie dalle braccia, e non mi cibai per due giorni. Così il buon Charruà saluta l'ultimo sonno del padre.
Nota 1: (ritorno) Il Poncho è una stoffa grossolana, intessuta di lane, che ha un buco nel mezzo del quale si fa passare la testa.
Così dicendo s'accendeva in volto, e muoveva gli occhi nerissimi con vivacità. Poi mi mostrava le braccia con fare orgoglioso, perché osservassi le larghe cicatrici che il suo lutto vi aveva lasciato.
Incominciavo a prendere interessamento per quest'uomo, che al selvaggio e virile ardimento della sua razza univa una tinta vaga di dolcezza e di bontà, dote assai rara fra le tribù indiane.
Ma in questa si udì un tintinnio di campanello.
–Quando il suo signore lo chiama, lo Charruà si fa più leggiero del serpente boi-hoby. Che cosa deve dire il vostro servitore al suo signore?
–Mi chiamo Giorgio.
–Dirò dunque al mio signore che il suo amico Giorgio gli fa la visita del mattino.
V
Poco dopo ritornò a me e mi pregò che lo seguissi.
Attraversai una lunga fila di camere. Da per tutto io vedeva con sorpresa l'impronta della ricchezza; poiché sebbene sapessi Raimondo unico rampollo d'una casa distinta, egli non mi aveva fatto alcun cenno della sua fortuna.
La camera in cui si trovava Raimondo era addobbata con squisita eleganza. Il suolo interamente coperto di tappeti e di pelli di tigre; le pareti tappezzate a drappi azzurri.
Raimondo mi aspettava con desiderio; e s'era rizzato per metà sui guanciali. Mi porse la mano affettuoso, e mi fe' sedere accanto a lui con compiacenza.
–Ti avrei fatto avvisare; mi disse quando ebbe congedato d'un cenno l'indiano; avevo tanto bisogno di vederti, di abbracciarti.
V'era tanta mestizia, e così dolce, nelle sue parole, che ne fui sorpreso, e non seppi rispondere nulla. Ma all'improvviso m'accorsi che il suo volto era pallido più del consueto, che il suo respiro era affrettato, e che grosse gocce di sudore gli bagnavano la fronte.
–Che hai tu dunque? gli domandai spaventato.
Sorrise.
–Nulla. Un po' di febbre. Me l'aspettavo; colaggiù era malato di nostalgia, ed ora… Gli è il mutamento di clima; io mi era abituato a quel cielo di fuoco.
Poi proseguì lentamente. – V'hanno ben altre doglie che serrano ben altrimenti il cuore e intisichiscono l'anima. Che avrai tu pensato di me dopo il mio linguaggio di jeri.
–Pensai che la tua anima è malata; che tu hai d'uopo d'un buon medico.
Raimondo mi porse un'altra volta la destra.
–Ahimè! dissemi; io dispero d'incontrarne uno. Vi sono veleni che non hanno antidoto-gl'Indiani lo sanno assai benevisono piaghe che consumano ed uccidono, e contro le quali nulla potrebbero il ferro ed il fuoco. Hai tu mai dubitato?
–Di che?
–Di tutto: di Dio, dell'uomo, della donna, dell'amore di noi stessi…
–E dell'amicizia, aggiunsi con amarezza.
–Sì; anche dell'amicizia. Or bene se tu l'hai provato cotesto supplizio, sai tu che vi esista un rimedio?
–Ve n'ha uno.
–Quale?
–Amare; gettarsi nel mondo, respirarne le colpe, e raccoglierne con ogni cura le poche virtù, udire la bestemmia dei mille e l'umile preghiera dell'innocente; soffrire l'indifferenza e l'odio fin che non s'incontri un uomo che ci faccia credere all'amicizia, una donna che ci faccia credere all'amore, e qualche raro esempio che ci faccia credere alla virtù. Amicizia, amore, virtù-questa triade benefica sarà la nostra rivelazione; allora leveremo gli occhi al cielo e troveremo il nostro Dio.
Per alcun tempo Raimondo non rispose, e parve meditare sulle mie parole.
–Sarà forse come tu pensi; prese a dire poi con abbandono; la mia anima lotta ancora per crederlo. Ma credi tu che io non abbia pensato a codesto, che io non abbia sospirato di desiderio, che io non abbia pianto di sconforto? Amare, aspettare; ma per tutto ciò conviene vivere, soffrire. Incontrerai una donna che ti amerà, un esempio dì virtù che mitigherà lo spasimo del tuo cuore-ma quale cammino per arrivare a questa meta? Noi siamo viaggiatori che ci avventuriamo nel deserto senza averne misurato l'estensione. E chi ne assicura che l'oasi che vagheggiamo lontana non sia l'effetto del miraggio-che le sabbie ardenti non si perpetuino senza fine, finché ci toccherà cadere sfiniti al suolo ad aspettarvi la morte? Ricercare smaniando! Ma a che giova? ed è egli possibile rassegnarsi a questo strazio, quando si è incerti dell'esito, quando s'ignora perfino l'esistenza dì ciò che si vagheggia? Che diresti d'un pazzo che corresse dietro alla sua ombra? E che altro sono essi gli uomini colle loro eterne chimere dì virtù e d'amore! Dove son esse cotali fantasime se non nella loro mente? E quale mai può vantarsi d'averle vedute?
–Ed ecco il tuo errore, ripresi con dolcezza. Ti sei fitto in mente che tutti gli uomini vedano attraverso la nebbia che oscura il tuo orizzonte. Ma oramai conviene che tu non dissimuli nulla a te stesso. Io non ti domando una confessione, perchè forse tu stesso non sapresti farmela; ma esigo dalla tua amicizia che tu getti uno sguardo scrutatore nell'anima tua. Molto spesso conoscere il male è guarirlo. Ora io ti domando: che hai tu fatto della tua vita? A diciotto anni ti colse desiderio dì viaggiare. Avresti potuto recarti nelle città popolose; la società ti sarebbe apparsa gigante in mezzo alle sue turpitudini; avresti contato le lagrime della miseria e le carrozze stemmate dell'ozio, e ti saresti sentito serrare il petto dallo sconforto. Ma dal turbine delle oscenità da trivio e degli amorazzi di gran dama, avresti forse sceverato una fanciulla modesta e povera, e l'affannoso lavoro di un operajo indigente. Increscioso del mondo in cui non avevi ancora vissuto, misantropo senza aver conosciuto gli uomini, senza ancora essere uomo tu stesso, hai visitato invece l'America meridionale e gli sbandati avanzi delle sue tribù di selvaggi. Così hai passato i più begli anni della tua vita respirando un'aria che non era la tua, ascoltando un linguaggio che tu comprendevi a stento, avvicinando uomini i quali per diversa cultura di spirito, per diversa eredità di genio, per costumi e bisogni diversi, non potevano migliorare od accrescere in alcun modo il patrimonio delle tue idee, dei tuoi sentimenti. Ritornasti al tuo paese stanco della vita, odiando vieppiù gli uomini, mentre degli uomini e della vita non hai formato un giusto concetto. La più gran parte di coloro che non devono pagare col lavoro il loro pane sono ammalati del tuo male, la noja. Se non che, mentre altri ricerca nell'ebbrezza e nel delirio dei sensi la dimenticanza, tu con più falsa logica domandi la pace alla solitudine, e frugando nel tuo cuore malato vorresti rinvenire in esso il farmaco del tuo male. Quando si è giovani, come tu sei, credilo, mio caro Raimondo, la solitudine è una compagna assai triste. Convien dare allo spirito le sue battaglie, i suoi battiti al cuore.
La franchezza del mio linguaggio sorprese Raimondo. Parvemi allora d'essermi spinto troppo oltre nel mio dire, e temetti che egli se ne fosse offeso. Lo osservai con inquietudine; era calmo. Poco dopo si scosse, e in un balzo discese dal suo letto.
–Che fai? gli domandai meravigliato.
–Voglio esser teco: pranzeremo insieme, andremo ai teatri, ai caffè…
–Ma tu sei malato. Poc'anzi avevi la febbre.
–È un nonnulla. Quel che più importa è di uscire da questa inerzia, quel che