Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, sommario. v. 2. Balbo Cesare
in Italia la circolazione del sangue. Harvey, inglese, la dimostrò piu ampiamente, e divolgò poi [1619], e cosí n’ha gloria. Dicono i nostri: ingiustamente. Ma io non entrerei in siffatte dispute, quand’anche n’avessi luogo. Quasi tutte le grandi invenzioni furono fatte a poco a poco, cioè da parecchi in parecchi tempi e luoghi: ondeché la storia sincera di ciascuna può bensì riuscir piacevole ed utile elucubrazione a meglio intendere lo spirito umano, ed istradarlo ad invenzioni ulteriori; ma appunto non può forse esser fatta tale storia sincera, se non ismettendo le pretese personali, municipali e nazionali. Le quali poi chi rialza per farne una gloria, mi sembra farsi per lo piú una grande illusione. Le glorie disputabili non sogliono essere vere glorie; le due parole implicano contraddizione; le certe sole rimangon vere e grandi. – Certe poi sono quelle dei viaggiatori italiani che seguirono Colombo. Amerigo Vespucci fiorentino [1441-1512 o 1516] toccò forse al continente americano prima che Colombo; e sia per ciò, sia perché fece primo alcune mappe delle nuove terre scoperte, ebbe l’immeritato e vano onore di dar loro il nome. Intanto Giovanni Cabotto veneziano e suo figliuolo Sebastiano [nato a Bristol 1467] scoprirono per Inghilterra, e Giovanni Verrazzani fiorentino per Francia, l’America settentrionale. Ma questi furono gli ultimi grandi scopritori e navigatori italiani. La gloria di compiere le scoperte passò d’allora in poi agli stranieri; e cosí ne passò ad essi tutto l’utile. Delle terre date alla civiltà da Colombo, Amerigo, due Cabotti e Verrazzani, non un palmo rimase all’Italia, non una colonia, non un commercio. Questo è forse il segno piú evidente della decadenza italiana, dell’esser passata a un tratto in ozio l’antica operosità di lei. Non basta dire, le scoperte d’America e del Capo, togliendo il commercio al Mediterraneo, lo tolsero all’Italia; bisogna dire, tolto il commercio al Mediterraneo, Italia oziosa non seppe seguirlo nelle nuove vie; e bisogna aggiungere, quand’anche il commercio riprendesse la via antica del Mediterraneo, questo commercio, queste vie, questo Mediterraneo non saranno per nulla dell’Italia, se ella rimane, com’è, oziosa o poco operosa, meno operosa in somma che le nazioni contemporanee. Il mondo è di chi sel prende; cioè degli operosi, cioè di chi opera per sé, cioè degli indipendenti.
11. Continua.– Ripetiamolo pure, e sovente; toltine Machiavello e l’Ariosto, furono abbondanti, anzi che grandi, in questo secolo gli scrittori. Ma gli artisti, abbondantissimi e grandissimi insieme. Qui nell’arte è dove trionfa l’ingegno italiano; qui è innegabile, e conceduto da tutti, il nostro primato. Qui possiamo, anch’oggi, non uscir d’Italia, trovar tra noi tutto quanto è da studiare e imitare. E tutto l’ottimo poi il troviam raccolto nel Cinquecento, anzi in quella prima metà di esso di che qui trattiamo. E quindi non solamente non avremo luogo qui a dir tutti i notevoli, ma nemmeno a nominarli. Accenneremo cinque culminanti intorno a cui si rannoderanno gli altri: Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Tiziano e Correggio. I tre primi, e (se è vero che la purità e l’eleganza, cioè quella che il Vasari chiama «virtù» del disegno, sia la somma dell’arte) i tre sommi, usciron tutti di quella terra e scuola privilegiata di Toscana ed intorno, che dicemmo culla dell’arti italiane. Nato Leonardo in Vinci nel 1452, attese in gioventù all’arti cavalleresche, a tutte quelle del disegno, a musica, a poesia, a matematica, a meccanica. È uno di quegli esempi che ingannano a disperdersi molti ingegni anche presenti, i quali non pensano quanto eccezionali sieno gli uomini enciclopedici, e massime quanto impossibili nelle colture progredite. Oltreché, Leonardo si fermò poi intorno a’ trentacinque anni nell’arti del disegno: e vi giunse al colmo suo (e forse dell’arte) nella Cena che fece a Milano per Ludovico il moro [dal 1494 al 1499], e cosí in quella etá dove tanti altri giá incominciano a stancarsi e scendere. E cosi egli fondò colà la scuola lombarda; in che si vide gran tempo alle fattezze la figliazione fiorentina. Morì l’anno 1519. Furono in quella scuola contemporanei, accerchiatori o seguaci di lui, Cesare da Sesto [-1524], il Luini [-1534?], Gaudenzio Ferrari [1484-1550], Bernardino Lanini [1578], Andrea Salai e parecchi altri minori. – Michelangelo Buonarroti [n. 1474] fu anch’egli «pittor, scultor, architettor, poeta», ma fin dall’adolescenza e nei giardini del magnifico Lorenzo attese all’arti e sopra tutte alla scoltura. Spaziò poscia in tutte e tre, vivendo e lavorando in Roma principalmente. Lasciolla una volta per ira (egli avea del Dante, e fu detto tale nell’arti) contra Giulio II, quell’altro iroso, quel Dante dei pontefici. E fuggito a Firenze, poco mancò che le due ire non guastassero il papa e la repubblica, non fossero uno di piú de’ turbamenti d’Italia. Un’altra volta venuti i due alla ribelle Bologna, e vedendo il papa il modello della propria statua apparecchiatogli da Michelangelo, e che questi gli avea posto nella mano sinistra un libro: – Che libro? – disse, – ponmi una spada, ché io non so lettere. – Poscia guardando la destra: – Dá ella benedizione o maledizione? – E Michelangelo: – Minaccia questo popolo se non è savio. – Ma il popolo non fu savio ed atterrò poi la statua. Meglio un pontefice benedicente, e ribenedetto; dureran serbate da’ popoli le statue sue. Una terza volta, sotto Clemente VII, ei lasciò Roma, come dicemmo, per servir la patria da ingegnere. I freschi da lui fatti in Vaticano serviron di studio all’ultima maniera di Raffaello. Fu geloso di questo, come vecchio di giovane da cui sia superato; e volendo rivaleggiare anche in pittura a olio, a che era poco pratico, s’aggiunse fra Sebastiano veneziano; e i due insieme fecero de’ gran bei lavori, ma men belli che quelli fatti da Raffaello. Più vecchio d’assai sopravvissegli di molto; signoreggiò, quasi tiranneggiò nell’arti a Roma per gran tempo; e morto Antonio da Sangallo [1546], ebbe la fabbrica di San Pietro, dove, ognun sa, pose il Panteon a cupola. Mori nel 1564. I novant’anni di sua vita comprendono tutt’intiera l’etá aurea dell’arti. Quindi in sì lunga vita, ed in una scuola giá cosi antica come la fiorentina, ebbe molti e grandi compagni e seguaci: Luca Signorelli [1440-1521], fra Bartolommeo [1469-1517], il Peruzzi [1481-1536], il Ghirlandaio [1485-1560], Andrea del Sarto [1488-1530], il Rosso [-1541], il Pontormo [1493-1558], il Bronzino [1502-1570], il Vasari [1512-1574], e molti altri che continuarono la scuola fiorentina; e il Francia [1450-1535], che si conta capo della bolognese, figlia cosí essa pure della fiorentina. – All’incontro, passò, quasi celestiale apparizione in bel mezzo alla lunga vita di Michelangelo, Raffaello d’Urbino [1483-1520]. Non enciclopedico, non letterato, raro cultor delle stesse due altre arti sorelle, elegantissimo architetto tuttavia ne’ pochi edifizi da lui fatti, pittor sopra ogni cosa, disegnator come nessuno che si conosca, per l’invenzione, l’espressione, la grazia, la divinità delle figure sue, delle donne principalmente, della beata Vergine sopra tutte. Incominciò in Urbino sotto il proprio padre, pittor non volgare; imparò a Perugia sotto a Pier Perugino [1446-1524], illustre pittore per sé, piú illustre per lo scolaro; innalzossi a Firenze; e chiamato a Roma, superò gli altri, superò Michelangelo, superò se stesso, tre o piú volte, od anzi sempre progrediendo, secondo che lavorava nelle logge e nelle stanze del Vaticano, alla Farnesina, nelle quasi innumerevoli Sante famiglie, e ne’ ritratti, e nello Spasimo, e nella Trasfigurazione, e ne’ disegni che dava a ciascuno, pittori, scultori e incisori, quanti gliene chiedevano, con una liberalitá, che era facilitá ed amore. Amava gli artisti, l’arte, ogni bello che vedesse e faceva suo. Poche anime han dovuto gioir quaggiú come quella. Fece felici quanti gli vissero intorno, e fu fatto felice da tutti. Non un’ira, non una gelosia, un pettegolezzo per parte sua, in tutta sua vita. Poche difficoltá incontrò. Non cercava, era cercato dalla fortuna, da papi, principi, grandi, letterati, uomini e donne. Visse presto, visse poco; morí di trentasette anni [1520]. Gli furon fatte le esequie da Leon X e tutta Roma, colla Trasfigurazione a capo del feretro. E non compagni, ma scolari e creati di lui furono e si professarono i seguenti, tutta quella che è detta scuola «romana»: Giulio Romano [1492-1546] principale fra tutti; Penni o il Fattorino [1488-1528 circa], Giovanni da Udine [1494-1564], Polidoro da Caravaggio [-1546], Perin del Vaga [-1547], Daniele da Volterra [1509-1566], Taddeo Zuccari [-1566] e parecchi altri; i piú de’ quali, dispersi dopo il sacco del 1527, diffusero quello stile e quella scuola non solamente in Italia, ma in Ispagna e Francia: l’Europa colta di quell’etá. Fu qualche compenso ai cattivi nomi fattici da altri. – La scuola veneziana è forse la sola che procedendo anticamente e direttamente da’ greci non abbia avuta origine toscana. Ma i progressi di lei furono molto piú lenti; e gli splendori non v’incominciarono se non da Giovanni Bellini [1426-1516] e Andrea Mantegna [1430-1506]; a cui tenner dietro, nati del medesimo anno, Giorgione [1477-1511] e Tiziano [1477-1576]. Visse questi cosí, a un tempo, e piú che Michelangelo, novantanove anni. Portò sua scuola al sommo subitamente. Il colore,