Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, sommario. v. 2. Balbo Cesare

Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, sommario. v. 2 - Balbo Cesare


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respiro all’Italia, alla cristianitá. – Ma questo fu pure il tempo che sorse di piccoli principi quello che fu poi cosí gran danno alla Chiesa, alla cristianitá, e, politicamente parlando, all’Italia forse piú che a nessuno. Leon X bandí nel 1516 alcune indulgenze da predicarsi, e pur troppo, diciam la parola, da vendersi, o farsi o lasciarsi pagare in Germania, e il cui prodotto doveva servir all’edificazione di San Pietro. N’ebber carico i frati predicatori. Lutero, uno degli agostiniani soliti averlo, si sollevò poi contro a quelle, contro a tutte le indulgenze [3l ottobre 1517], poi contro alla curia romana, contro al papa, e finalmente contro all’infallibilitá, all’unitá, contro a questo e a quel domma, andamento solito di tutti i capi di setta. Denunciato a Roma, condannato, si sottomise; poi ritrattò la sommessione, disputò co’ legati, scrisse, riscrisse, fece discepoli, e fu ricondannato solennemente [15 giugno 1520]; ed ei solennemente bruciò la bolla [10 dicembre], assistente e gia aiutante il popolo di Wittemberga. Era incominciata quella Riforma, quella divisione della Chiesa, che non è vero (né a noi italiani può esser dubbio) introducesse nella cristianitá né la libertá politica né la filosofica, le quali avevamo noi da secoli; che non introdusse se non quella libertá del credere, la quale non può essere in una religione vera rivelata; che, del resto, preoccupò per un secolo e piú quasi esclusivamente la cristianitá, che la distrasse dalle opere migliori, che ritardò i progressi di lei in Germania, in Francia e in quel popolo britannico, dov’oggi ancora ella ritarda l’unione dell’imperio. All’Italia poi ella fu origine d’un male nuovo allora, e forse non cessato. Dalla Riforma, dal bisogno, e diciam pure dal dover de’ papi di rivolgersi contro essa in Germania, incominciò quel loro accostarsi agli imperatori, che fu cosí contrario a tutte le tradizioni, che senza tale scusa sarebbe stato contrario alla natura stessa del papato. – E ciò si vide forse fin da questi primi anni della Riforma, ultimi di Leone X. Perciocché, morto Massimiliano [19 gennaio 1519] ed elettogli a successore Carlo figlio di suo figlio, giá re di Castiglia e delle Indie, d’Aragona e delle Due Sicilie, signor di Borgogna e de’ Paesi bassi, sorse in breve gelosia, contesa e guerra tra lui e Francesco I di Francia, competitore di lui per l’imperio. Era naturale, era tradizionale, che il papa s’opponesse alla potenza imperiale, risalente col possesso unito delle Due Sicilie a ciò che era stata sotto ai due Federighi Svevi, e minacciante salire, come salí, piú su. Né Leon X o la coltissima curia romana erano uomini da ignorare o trascurare tali memorie; e si accostarono dapprima a Francesco I. Ma tra breve, fosse giá quella nuova necessità spirituale della politica pontificia, fosse ambizione di Leone, che volesse avere (per sé o per casa Medici) Parma e Piacenza tenute un tempo da Giulio II ed or da Carlo V, il fatto sta che ei s’alleò con questo [8 maggio 1521]. Da quel dí, e salvo pochissime eccezioni furono sempre imperiali, austriaci i papi, abbandonarono quella causa nazionale che avea fatti grandi come principi e come pontefici Gregorio VII, Alessandro III, i due Innocenzi III e IV principalmente, e tanti altri tra essi. E molti buoni papi furono d’allora in poi certamente; ma1 nessuno che sia potuto dirsi grande politico, nemmeno dagli scrittori tutto ecclesiastici. E Leon X incominciò subito la impolitica guerra. Riuniti gli eserciti pontificio e spagnuolo sotto Prospero Colonna e il marchese di Pescara, entrarono addí 19 novembre in Milano, ove fu posto duca Francesco Sforza ultimo figliuolo del Moro. Leon X n’udì la nuova, e morí subitamente il I dicembre seguente 1521. – Mortogli nel 1519 il nipote Lorenzo, avea riunito agli Stati della Chiesa il ducato d’Urbino. Leone era l’ultimo o penultimo discendente legittimo di Cosimo padre della patria; disputandosi se fosse legittimo o no il figliuolo dell’antico Giuliano ucciso nella congiura de’ Pazzi, Giulio or cardinale posto a governo di Firenze dopo la morte di Lorenzo, e che fu in breve papa Clemente VII. Di Leone resterebbero a narrare e disputare alcune crudeltà e perfidie contro a cardinali e signorotti. Ad ogni modo, furon poche rispetto al tempo.

       6. Adriano VI, Clemente VII [1522-1534]. – Succedette Adriano VI [Florent, 9 gennaio 1522], precettor giá di Carlo V, fiammingo. ultimo papa straniero che sia stato; e santo papa che avrebbe voluto fare ciò che giá i papi tedeschi un cinquecento anni addietro, restituir la severità, la disciplina della curia romana. Ma egli non era, né aveva ad aiuto un Ildebrando; non si pose a capo dell’opinione italiana, come avean fatto que’ suoi compatrioti, e non riuscì. Bisogna vedere nel Vasari e in altre storie del tempo le disperazioni degli artisti e de’ letterati per questo che pareva loro ritorno alla barbarie. Era assente; ed intanto che giungesse, furon distrutte le opere politiche di Leon X: i La Rovere tornarono in Urbino, i Baglioni in Perugia, gli Estensi in parecchie terre lor tolte. Venne Adriano [agosto 1522], e strinsesi coll’imperatore, piú che mai signor d’Italia, posciaché i francesi erano stati sconfitti alla Bicocca [29 aprile], ed avean quindi vuotata Lombardia e Italia. Adriano intendeva, badava poco a politica; attendeva a riformar Roma, la curia. Morì ai 24 settembre 1523. Ai romani, agli artisti, ai letterati parve esser liberati. – E parve loro esser risorti, quando [18 novembre] fu eletto un nuovo Medici, il cardinal Giulio, che prese nome di Clemente VII. Arti e lettere furono riprotette, benché molto meno; per la buona ragione che Leon X vi aveva speso quanto si poteva e piú, e rimanevan poveri i successori; e per l’altra che, tra la guerra di Carlo V e Francesco I, durata tutto il pontificato d’Adriano e quasi tutto quello di Clemente, fu il tempo peggiore che toccasse in quel secolo di strazi alla straziatissima Italia. Già un nuovo esercito francese sotto Bonnivet, era ridisceso in Lombardia; e ridiscesevi un esercito tedesco sotto il Borbone, principe, contestabile e traditor di Francia. Dir le fazioni che seguirono tra questi due, e Colonna e Pescara capitani degli spagnuoli, e Giovanni de’ Medici condottiero di quelle «bande nere» che si contano per l’ultima delle compagnie di ventura, ed altri minori, e le prede e le stragi di tutti, e le pesti che vi si aggiunsero, fu quasi soverchio, e riuscì noiosissimo anche nelle storie distese e del tempo; qui sarebbe impossibile ed inutile. Qui non sono nemmen piú a notare errori particolari. Quando s’è fatto quello massimo di dar la patria a stranieri, senza nemmeno serbar in mano l’armi onde approfittar di lor divisioni, di nostre occasioni, non è piú nulla a fare o dire, che soffrire finché dura il castigo di quel sommo errore, proprio o de’ maggiori. Resta memoria d’un progetto di quella mente feconda di Machiavello, la quale, colla sua costante preoccupazione dell’indipendenza, si fa forse perdonare tanti altri errori; il progetto che s’accostasser tutti gl’italiani a Giovanni de’ Medici, alle bande nere, che eran le sole armi italiane rimanenti. Ma che? Erano armi mercenarie e poche; e poi, Giovanni era buon guerriero sì, ma non aveva date prove di grandezza militare, ed anche meno di politica; né avea per sé quell’opinione universale, che è, dopo l’armi, il primo apparecchio a farsi duce di siffatte imprese. – Insomma, i francesi si ritrasser di nuovo per Ivrea ed Aosta nel 1524; e in questa ritirata morí Baiardo, che fra cosí brutte guerre seppe, dai vinti stessi, ottener nome di «cavalier senza paura e senza rimproccio»; e che morente e compatito dal Borbone, risposegli: – Non io che moio per la patria, ma fate pietà voi che la tradite. – Borbone e Pescara fecero quindi una punta in Provenza fino a Marsiglia; ma ne tornarono in fretta contra Francesco I, scendente di nuovo. Questi pose assedio a Pavia [ottobre], e mandò un altro esercito fin nel Regno, ove si mantenne parecchi anni. Ma accorso il Pescara a Pavia, seguí [25 febbraio 1525] quella gran battaglia dove fu preso il re di Francia. Se ne consolò e consolò la nazione con quel detto (fatto famoso, come tanti altri, con un po’ d’alterazione) «esser perduto tutto fuor che l’onore». Ad ogni modo guastò questo, quando tratto prigione a Spagna, e non sapendo soffrir la noia (gran vizio talor anche a un re), firmò un trattato [14 gennaio 1526]; e liberato nol tenne, mal sofisticando sul proprio diritto di promettere in prigione, ch’ei non doveva usar se non l’aveva. – Del resto, questi eran tempi di perfidie complicate; e la liberazione di Francesco I fu aiutata da un altro tradimento fatto a un traditore italiano. Francesco Sforza e Morone suo cancelliero, oppressi in Milano da’ lor alleati spagnuoli e tedeschi, idearono liberar sé, e seco l’Italia. Buona, santa idea di nuovo; e che, se si fosse potuta eseguire con qualche ardita alzata d’armi, avrebbe fatto essi immortali e la patria finalmente felice. Ma ridusser l’impresa a una congiura. Alla quale, numerosa di necessità, avvenne ciò che è impossibile non avvenga: che tra un gran numero di uomini, gli uni traditori, gli altri almeno simulatori, non se ne trovi alcuno che simuli e tradisca la congiura stessa. Fu svelata questa (che del resto fu la sola che avesse uno scopo italiano, fra le tante congiure accennate) dalla duchessa d’Alençon, sorella di Francesco I, e dal Pescara, italiano, discendente


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Nella edizione di novembre 1846 era qui quest’aggiunta, quest’eccezione: «(fino al giugno 1846)». Così ora nel 1850 la potess’io lasciare! Così poi ripentirmi, e riporla a luogo suo!