Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, sommario. v. 2. Balbo Cesare
fratelli minori, Giovanni, allor cardinale e che fu poi papa Leon X, e Giuliano. E sulla sedia romana, morto il Cibo nel medesimo anno fatale 1492, era succeduto Borgia, Alessandro VI, il peggior papa di questi tempi, ove ne furono pochi buoni. Signoreggiavano ne’ ducati di Ferrara e Modena gli Estensi; in quello d’Urbino, i Montefeltro; i Gonzaga in Mantova; i Bentivoglio in Bologna; i Baglioni in Perugia; i Colonna, gli Orsini ed altri signorotti, in molte terre della Chiesa. In Napoli regnava il perfido e crudele, e cosí diventato potente, ma ora vecchio Ferdinando I, che non seppe scongiurar il pericolo, che morí prima di succombervi nel 1494. Sicilia era del re cattolico. Genova, tenuta come feudo di Francia da Ludovico il moro. E Venezia, giá caduta in quella viltá e stoltezza del volersi tener neutrale ne’ pericoli comuni, isolata. E cessati, con Francesco Sforza e i Piccinini, i grandi condottieri potenti al par di principi e repubbliche, non ne rimanevan guari se non de’ piccoli, impotenti a tutto, salvo che a tener disavvezzi dall’armi i popoli della imbelle Italia.
3. Alessandro VI papa [1492-1503]. – La causa de’ nuovi guai d’Italia fu senza dubbio l’incapacitá politica e militare di lei; l’occasione poi, fu l’ambizione straniera di Carlo VIII, aiutata dall’ambizione traditrice di Ludovico il moro. Il quale richiesto da Ferdinando di lasciare il governo al nepote Gian Galeazzo, volle usurparne il ducato; e perciò fecesene dare da Massimiliano imperatore l’investitura disprezzata giá dal gran Francesco Sforza, e non data poi a nessuno dei discendenti. E per poter poi effettuare l’usurpazione, volle assicurarsi di Carlo giá minacciante, s’alleò con lui, gli promise passaggio ed aiuto. Qui non era nessuna delle scuse dell’altre chiamate; non quella, che può esser buona, di cacciare altri stranieri; nemmen quella cattiva, di resistere a un nemico interno. Qui è un cumulo di tradimenti; e quindi il Moro è il traditor piá esecrato nelle memorie italiane. Ma pur troppo non fu il solo; il cardinal Della Rovere, che fu poi papa Giulio II e fece tanto chiasso di cacciar i barbari d’Italia, spinto ora dalla rivalitá, dalla inimicizia ad Alessandro VI, anch’egli si trova tra’ chiamatori ed accompagnatori dello straniero. – Carlo scese in agosto 1494 pel Monginevra, Torino, Asti. Ivi ammalò e si fermò. Poi passò a Milano, visitò, non protesse Gian Galeazzo giá morente, e che morí pochi di appresso [20 ottobre] con voci di veleno. Cosí il Moro fu duca, e tirò fuori l’investitura imperiale. Carlo proseguí, s’appressò a Toscana per Pontremoli. Viene Pier de’ Medici spaventato, e gli dà i castelli fiorentini che difendean que’ passi, quello stesso di Pisa. Ma tornato costui a Firenze, è cacciato dalla signoria, dal popolo sdegnato [9 novembre]. Al medesimo dí, Pisa caccia i fiorentini, si libera, presente, e piú o men connivente, Carlo VIII. Questi lascia un presidio nel castello, muove a Firenze, v’entra militarmente, la lancia alla coscia, tratta un accordo colla nuova signoria; e volendolo imporre duro, gli è stracciato in faccia da Pier Capponi, che disse: – Sonate vostre trombe, noi sonerem nostre campane. – Fu il solo bell’atto di questa guerra; cosí vergognosa, del resto, che i contemporanei la disser fatta col «gesso» dei forieri i quali segnavan gli alloggi francesi di tappa in tappa. S’accomodarono tuttavia Firenze e Carlo; e questi proseguí a Roma, dove il papa chiusesi in castel Sant’ Angelo, e s’accomodò poi. Spaventato Alfonso II, il nuovo re di Napoli testé succeduto, lasciava vilmente la corona a suo figliuolo Ferdinando II [24 gennaio 1495]; e questi provava a difendere i passi, ma era vilmente disertato da’ suoi, e fuggiva da Napoli a Sicilia; e Carlo VIII entrava in quella il dí appresso [22 febbraio]. S’arrendevano, a gara di viltá, castella, cittá, province, grandi, popoli, il Regno. Tanto che tra pochi dí i francesi n’erano ad oziare e viziarsi nella disprezzata conquista. – Allora, sollevavasi tutta Italia, mezza Europa, lo Sforza traditore, perché non avea piú ad acquistare ma a difendere il ducato, or minacciatogli dalle pretensioni del duca d’Orléans discendente da una Visconti e signor d’Asti; Venezia, tornata (per poco) al sentimento de’ pericoli d’Italia; il Borgia, tornato dal suo spavento; il re cattolico per restaurare i parenti, o forse fin d’allora riaggiunger Napoli a Sicilia ed Aragona; e Massimiliano non so per quale delle sue mutevoli ambizioni. Tutti questi insieme firmavano un trattato contra Carlo [31 marzo]. Il quale cosi minacciato ripartiva da Napoli [30 maggio]; passava a Roma, schivava Firenze, passava a Pisa; e varcato Appennino, trovava a Fornovo l’esercito degli alleati italiani capitanato dal marchese di Mantova. Combattessi addí 6 luglio, molto piú forti gl’italiani. Disputasi chi vincesse; ma i francesi avean combattuto per passare, e passarono. Giunsero ad Asti, Carlo vi si fermò a corteggiar donne e trattar pace col Moro; e fattala, partí [22 ottobre] da Torino per a Francia, dove non pensò piu guari a Italia. – Tornò quindi Ferdinando II nel Regno, rientrò in Napoli [7 luglio], e guerreggiandovi poi due anni contro a’ francesi rimastivi sotto Monpensieri, se ne liberò coll’aiuto degli spagnuoli capitanati da Gonzalvo di Cordova, il conquistator di Granata, detto il «Gran capitano». Capitolarono gli ultimi francesi ad Atella, e moriva Ferdinando II poco dopo, lasciando il regno a Federigo III suo zio, fratello di Alfonso [1496]. Ed anche da Pisa si erano ritirati i francesi fin dal primo dí di quell’anno, lasciando disputarsi e guerreggiarsi tra sé pisani e fiorentini, e per gli uni o gli altri le varie potenze d’Italia, e Massimiliano re de’ romani. Il quale, invitato anch’egli dal Moro, il gran chiamator di stranieri, scese a frapporsi in tutto ciò con poca gente e pochi danari, e quindi non prese le corone solite, non fece nulla, e risalí disprezzato oltre ogni altro imperatore mostratosi in Italia. – I fiorentini tentavano intanto riordinar lor repubblica sgombra di Medici; ma eran divisi in parti, non piú nazionale o straniera, né per il papa o l’imperatore, per l’aristocrazia o la democrazia, per la repubblica o la signoria, ma pro e contro un frate domenicano, Gerolamo Savonarola. Costui, zelante, costumato, austero a sé, aspro ad altrui, in tempi corrotti, avea colle prediche politiche tratti molti a sé, vivente ancora Lorenzo. Era stato chiamato al letto di questo morente, e dicesi non l’avesse voluto assolvere, perché Lorenzo non voleva restituire la repubblica, a modo di lui il frate. Avea profetato malanni, castighi di Dio, francesi; ed or pendeva a questi che avean adempiute sue profezie. I suoi partigiani chiamaronsi «piagnoni»; i contrari, gente di mondo, gentiluomini i pií, «arrabbiati»; i medii, piú o men desiderosi de’ Medici, «bigi,» e poi «palleschi»; nomi e parti del paro ignobili. I particolari del tempo son vere commedie; il fine, tragedia barbarissima, da medio evo che ancor fiorisse. Contrario al frate riformator di costumi e disciplina ecclesiastica era Alessandro VI, naturalmente. Gli proibí di predicare. Il frate obbedí per poco; poi ricominciò, e contro al papa. Allora uscirono da sé, o fecersi uscire contra lui altri frati; prima un agostiniano, poi un francescano, Francesco di Puglia, il quale propose una di quelle stoltezze od empietá parecchie volte condannate dalla Chiesa, un giudicio di Dio: che passassero egli fra Francesco e il Savonarola tra una catasta ardente; e chi passasse illeso, quegli vincesse. Savonarola non volle, ma s’offri per lui fra Domenico suo confratello. Appuntossi il dí 7 aprile 1498; grande aspettativa, grand’apparecchio, gran concorso. Ma venuti al duello i due frati, fecero come chi vuole e disvuole, attaccaron disputa sul modo: cioè (quasi profanazione al dirne), sul Sacramento, che il domenicano volea portar con sé tra le fiamme, e il francescano non voleva. Non se ne fece altro. Il popolaccio beffato infuriò, gli «arrabbiati» si sollevarono; e al dí appresso diedero l’assalto al convento di San Marco, e fecer prigioni fra Gerolamo, fra Domenico, e un terzo, fra Silvestro. I quali poi furono in pochi dí interrogati, torturati, condannati, ed arsi in piazza [23 maggio]. – Di Savonarola chi fa un santo, chi un eresiarca precursor di Lutero, chi un eroe di libertá. Ma son sogni: i veri santi non si servon del tempio a negozi umani; i veri eretici non muoiono nel seno della Chiesa, come morí, benché perseguitato, Savonarola; e i veri eroi di libertá sono un po’ piú sodi, non si perdono in chiasso come lui. Fu un entusiasta di buon conto; e che sarebbe stato forse di buon pro, se si fosse ecclesiasticamente contentato di predicare contro alle crescenti corruttele della spensierata Italia. – Alla quale, come tale, ripullulavano le occasioni di perdizioni. Al dí appunto della festa fallita in Firenze, era morto Carlo VIII, era salito al trono di Francia Luigi XII, quel duca di Orléans che giá dicemmo pretender a Milano come discendente d’una Visconti, e che or pretese a Napoli come re di Francia, successore ai diritti degli ultimi Angioini. Se gli fosse riuscito il tutto, incominciava fin d’allora, e a pro di Francia, quella unione dei due grandi Stati italiani di settentrione e mezzodí, la quale sessant’anni dopo die’ l’Italia legata in mano a Spagna. Luigi XII non era avventato come Carlo VIII; era anzi principe prudente, destro, politico, e in Francia cosí buono che n’ebbe nome di «padre