Scritti editi e postumi. Bini Carlo

Scritti editi e postumi - Bini Carlo


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– avrebbe fatto meglio a mettere in circolo degli assegnati, – avrebbe fatto meglio a fallire. Una moneta falsa è tuttavia di metallo, – ha un valor benchè minimo: – il povero è peggio, – è una moneta di fango.

      I poveri, via, non ci volevano; – essi stessi ne vanno d'accordo. – Ma come mai son diluviati in questo mondo ad ingombrare le strade, i vicoli, le piazze, in guisa che il Signore per poter passare disperatamente è costretto di andare in carrozza? Ma come mai? Io mi ci sono stillato il cervello, e non son venuto a capo del come. L'ho dimandato perfino agli stessi poveri, e mi hanno risposto chiedendomi qualche cosa per amore di Dio.

      Così è, – la storia è come io ve la narro. Le tradizioni, gli archivi, la stampa, non serbano traccia nè del come, nè del quando fosse fondata la setta dei poveri; – non serbano neppure il nome del fondatore. L'antiquaria ha cercato dappertutto, – per terra, – per mare, – per aria, ma non ha trovato nè pergamena, nè medaglia, nè altro documento, che ne desse il minimo indizio. Per avventura la setta non fu mai in grado di rizzare nè anche un tronco d'albero in memoria della sua origine. Quel poco che ne sappiamo è che la setta rimonta col suo principio verso un'epoca remota remota, le mille miglia lontana dal dominio della storia, e conta un'antichità canuta tanto da dar gelosia a chi stima di attingere un merito a questa sorgente. Un gentiluomo è sempre prudente, – ma tuttavia per le buone regole credo bene avvertirlo di non discender mai a cimento con un povero sulla primazia delle scambievoli origini. Bisognerebbe cercar nel passato, e chi sa dove lo menerebbe l'indagine. Chi l'assicura che non trovasse uno degli avi suoi in cotal luogo da fargli salire i rossori sul viso? Quando Adamo zappava ed Eva filava, dov'era allora il gentiluomo?

      Povero! – Questo nome ha un tal prestigio per me, ch'io non me ne posso staccare. E quanti sono! Trovatemi chi li sappia contare, ed io ipso facto lo dichiaro matematico più valente di Galileo. I poeti, per dare un'idea delle cose che non si possono numerare, hanno tolta l'immagine dalle arene del mare, e dalle stelle del cielo; – potevano toglierla ancora dai poveri della terra, e così avrebbero avuto un paragone di più. – Non v'è che dire, – è la più vasta setta di quante apparissero mai, – rimasta sempre in seduta permanente, – e riceve gli adepti alla rinfusa, – senza chieder loro come si chiamino, – senza guardarli neppure in faccia. Non ha misteri, – non ha sotterranei, – cospira sotto la cappa del sole, – non ha timore della Police. Ella non è una setta segreta, e qualsivoglia governo l'ammette.

      O poveri! – Voi siete ricchi di pazienza più che altri non crede. Quando di sotto ai tetti delle vostre soffitte voi vedete le stelle, chi non fosse povero bestemmierebbe, – penserebbe al freddo, – alla guazza, – alla pioggia, – al malore che gliene potrebbe incogliere. – E voi pensate invece che quegli astri scintillanti un dì saranno casa vostra, – che passerete dall'uno all'altro a vostro talento, – che avrete tutti i giorni Domenica, – che le anime vostre potranno svoltolarsi a bell'agio sull'azzurro molle del firmamento come sopra un tappeto. Così sognate ad occhi aperti, e non sentite la durezza del letto, e l'inclemenza dell'aria. La speranza pietosa di tanti bisogni, di tanti dolori, coll'ambrosia del suo alito v'inebbria – vi affascina il cuore, – colle sue divine melodie vi culla i sensi in una calma profonda. – O poveri! Voi siete ricchi di pazienza, – e Dio… vi mantenga perenne quel dono. Che se un giorno la perdeste, se rompeste le dighe che al presente vi contengono, qual sarebbe allora la faccia del mondo? La gerarchia sociale resisterebbe al fiotto dei vostri milioni? la piramide starebbe, quando si scommovesse la base? Cosa sarà la superficie di questo suolo, quando il vulcano l'avrà lambita colle sue mille lingue di fuoco?

      CAPITOLO VI

      Ma ripigliamo il filo del nostro racconto. Dove siamo rimasti? Sarebbe bella che me ne fossi scordato! Lasciatemici pensare un momento: buoni, buoni, – ho ritrovato il filo. – Ma, di grazia, stateci attenti ancor voi, – io sono avvezzo troppo a divagare, tanto che non mi sembra neppure. Quando vedete ch'io prendo il largo per menarvi chi sa dove, – forse in un pantano, – forse sur un prato fiorito, – allora tentatemi per un braccio, – tiratemi una falda, – rimettetemi insomma sulla vera strada. Io n'ho di bisogno, – voi lo vedete da voi; – non posso camminar diritto, – serpeggio sempre, – ormai è un vizio che s'è convertito in una seconda natura. – Per questo ho stimato bene avvisarvene. – Uomo avvisato, mezzo salvato.

      Sta tutto bene, ma un altro poco, s'io non me ne accorgo per tempo, il filo mi sfuggiva nuovamente di mano. – Su dunque all'opera.

      Ecco il Povero viene. Vedetelo là in mezzo a quella massa di popolo, che lo preme, e lo incalza nel suo tristo destino spensieratamente, come il cavallone spinge sul lido una tavola del naufragio. L'avete veduto? Non si distingue se sia sciolto o legato, se gli sbirri sien quattro o sei, tanto è fitta quella massa di plebe. Che ronzio, che schiamazzo, che tempesta d'urli e di voci! – Cos'ha fatto? – Come si chiama? – È del paese? – È forestiere? – È un ladro? – È un assassino? Dove ha rubato? – Conoscete l'ammazzato? – Quante ferite? – E via discorrendo; e tutti dimandano, e tutti rispondono ad un tempo. – Ma non potrebbe darsi che fosse, più che iniquo, infelice, che fosse innocente? – Potrebbe darsi, ma nessuno l'ha pensato, nessuno l'ha detto. Ei l'infelice percorre le vie di fretta più che non vorrebbe; – il turbine popolare lo mena. E chi l'ha vestito in quel modo così pietosamente ridicolo? Se la Miseria non gridasse; io l'ho vestito, – tu diresti che il Capriccio ha mandato fuori la sua maschera più grottesca; il suo capo d'opera. Porta in capo una cosa, che tre anni sono era già un cappello vecchio, – ora è uno sgomento a definirla. – E la camicia non è di canapa, non è di lino, – nè di cotone, – nè di stoppa; – è d'una stoffa che non è stoffa, d'un colore che non è colore; – una camicia che ha una manica e mezzo. Oh! davvero è meglio contentarsi della pelle che ti diè tua madre, che avere una camicia come quella! – E i calzoni! che labirinto! Non si sa se sono a diritto o a rovescio, se il davanti è di dietro, e se il di dietro è davanti; – se in principio furono fatti di toppe, o d'una materia unica, perchè ora le toppe sono più grandi della materia primitiva. E quante sono! e come affollate! e si montano addosso una sull'altra come una turba di curiosi quando c'è da vedere uno spettacolo nuovo. E chi gli ha fatto quei calzoni? Giudicandogli al taglio, potrebbe averglieli fatti ancora un magnano. – Tutto questo vuol dir nulla: così vestito com'è, viene avanti; – un piede ha calzato di mota, – l'altro gli sta in una scarpa, mezzo sì, mezzo no. Ei l'infelice è vicino a toccare la meta del suo viaggio. È un viaggio che i poveri fanno frequentemente, – di rado sciolti, più spesso legati, – e non lo stampano, perchè son modesti, nè li rode la smania di farsi un nome a tout prix. È un viaggio che non fanno mai in vettura. È scritto che il povero vada sempre a piedi; – sia che vada a nozze, all'ospedale, o in prigione. E per questo il Povero va colle sue gambe in prigione; – e deve andarvi, fosse anche paralitico, stramazzato dalla febbre, fosse anche zoppo. – Il povero non ha diritto che a una vettura sola: a quella che dal carcere lo porta al patibolo, – dalla vita all'eternità.

      Finalmente egli è giunto al portone d'ingresso, – all'arco trionfale della miseria, del delitto, dell'innocenza che la calunnia può convertire in delitto. E pur troppo vi sono trionfi di tutte le specie, e la plebe umana li accompagna tutti colla medesima calca, – col medesimo spirito, colla medesima furia, colle medesime grida. Basta che sia un alimento alla feroce curiosità della plebe! sia pure la testa mozza di Luigi XVI, l'incoronazione di Buonaparte! Tra cibo e cibo non mette divario. – Il Povero ha passato il suo arco di trionfo, – trionfo di vergogna e di dolore. – La plebe è rimasta di fuori, e non sa neppur ella cos'altro più aspetti; ella non è sazia ancora.

      CAPITOLO VII

      Il Povero è avanti, e gli sbirri fanno il corteggio. Salgono e scendono più volte; – voltano a destra, voltano a manca; – è un intreccio che la mente alla prima non può raccogliere in ordine; – in fine danno in un corridore lugubre lugubre, dove si può vedere l'oscurità, come disse Milton. Qui la vista non serve, conviene andare a tentoni. Giunti in fondo si fermano. Di lì a pochi minuti s'ode un rumor di passi che sempre più si avvicina; – finalmente senza averlo veduto comparisce un uomo con un mazzo di chiavi, – un uomo per così dire, con un viso duro, un viso cupo, che accresce le ombre del luogo. – Gli sbirri non gli dicono che due parole, e poi se ne vanno.

      Ora


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