Dopo il divorzio. Grazia Deledda

Dopo il divorzio - Grazia Deledda


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nel sentire quella voce e quelle due parole, e tosto prese il padrone per il braccio e lo trascinò via, mormorandogli:

      – Sì, sei uno stupido. Che modi sono questi? Ti comporti come un montone, uccellino di primavera…

      – Non me l'hai detto tu?

      – Io? Tu vacilli. Io non sono matto.

      E andarono via uniti, barcollanti: nel portico dei Dejas trovarono zia Martina che filava ancora, al buio. Ella s'accorse tosto che il figlio era ubriaco, ma non gli disse niente, perchè sapeva che contrariandolo, quando egli si trovava in quello stato, montava in furore: soltanto quando Brontu le chiese del vino, ella rispose che non ce n'era.

      – Ah, non c'è vino in casa Dejas, la più ricca del paese? Come siete avara, mamma mia! – Egli cominciò a urlare. – Io non farò scandali, no, ma sposerò Giovanna.

      – Sì, sì, tu la sposerai, – disse zia Martina per calmarlo. – Intanto coricati e non gridare, perchè se essa ti sente non ti vuole.

      Egli tacque, ma volle che Giacobbe spiegasse e stendesse per terra due stuoie di giunco, vi si coricò e volle che il servo gli si coricasse vicino. Zia Martina lasciò fare per non irritarlo, e così Giacobbe invece che al lunedì prese servizio il sabato sera.

      V

      Circa quindici giorni dopo, una domenica mattina, tutti i nostri personaggi si trovarono riuniti alla Messa officiata dal prete Elias che, dicevano quelli del paese, quando celebrava pareva avesse le ali.

      Mancava solo Giovanna, e mancava per due ragioni: anzitutto perchè la disgrazia accadutale imponeva un certo duolo, che la costringeva a non mostrarsi fuori di casa, tranne che il bisogno di lavorar fuori non glielo imponesse; e poi perchè ella era caduta in una specie di atonia che le impediva di muoversi, di uscire, di lavorare, di pregare. Già, buona cristiana ella non era stata mai: soltanto prima del dibattimento di Costantino aveva fatto qualche voto, come quello di recarsi a piedi, scalza, a capelli sciolti, fino ad una lontana chiesa di montagna, e se Costantino veniva assolto, di trascinarsi sulle ginocchia dal punto ove appena scorgevasi la chiesa, fino alla chiesa stessa, cioè per due chilometri circa.

      Ora non pregava, non parlava, non mangiava. Anche il bimbo le era diventato quasi indifferente, e zia Bachisia doveva nutrirlo con latte e pane masticato per tenerlo su. Qualcuno diceva che Giovanna stava per impazzire, ed infatti, se ella usciva dalla sua atonia, durante la quale stava ore ed ore accoccolata in un canto con gli occhi vitrei fissi nel vuoto, era per dare in escandescenze, strapparsi i capelli, urlare parole insensate. Dopo il suo ultimo colloquio con Costantino, al quale aveva portato il bimbo, ella non pensava ad altro che alla scena avvenuta, e la ripeteva ad intervalli, con l'accento incosciente dei monomaniaci.

      – Egli era là e rideva. Era livido e rideva. Dietro l'inferriata. Malthineddu si attaccò all'inferriata e lui gli toccò le manine. E rideva. Cuore mio! Cuore mio! Non ridere così, che mi fai male, tanto lo so che il tuo riso è il riso dei morti. E i guardiani stavano lì come arpie. Prima erano buoni questi guardiani di carne umana, ma dopo, dacchè Costantino è condannato, son diventati cattivi. Cattivi come cani. Malthinu nel vederli aveva paura e piangeva. E il padre rideva, capite? Il bambino, la creatura innocente, piangeva: capiva che suo padre era condannato e piangeva. Cuore mio! Cuore mio!

      Zia Bachisia sbuffava, non ne poteva più, e diceva:

      – In verità mia, tu sembri una creatura di due anni, Giovanna, anima mia. Ha più giudizio tuo figlio di te, sciocca.

      E minacciava persino di bastonarla; ma tutto, preghiere, conforti, minaccie, tutto riusciva inutile.

      Intanto da Nuoro giunse notizia che in attesa dell'appello Costantino era stato trasportato alle giudiziarie di Cagliari; poi venne una sua lettera breve e triste. Diceva d'aver fatto buon viaggio, ma che a Cagliari si soffocava per il caldo, e che certi insetti rossi ed altri di vario colore lo tormentavano notte e giorno. Mandava un bacio al bambino, pregando Giovanna di allevare Martineddu nel santo timor di Dio. E salutava anche il suo amico Isidoro.

      Finita la Messa, zia Bachisia attese che il povero pescatore terminasse di cantare con la sua voce sonora le laudi sacre, per passargli i saluti di Costantino.

      Prete Elias rimase inginocchiato sui gradini dell'altare, pregando, col volto pallido estasiato; Isidoro continuava a cantare, ma la gente cominciò ad andarsene.

      Davanti a zia Bachisia passò zia Martina col suo passo fiero di cavalla vecchia ma ancora indomita: passò Brontu, vestito di nuovo, coi capelli lucidi di grasso (egli parlava male dei preti, ma la domenica andava alla messa) e passò Giacobbe, con un paio di calzoni di tela nuova, rude, non lavata, che puzzavano ancora di bottega.

      Isidoro continuava a cantare.

      La chiesa finì col restare quasi deserta ed egli cantava ancora. La sua voce sonora risuonava fra le bianche pareti polverose, sotto il tetto composto di travi e di canne, fra gli altari umili, coperti di rozze tovaglie, adorni di fiori di carta, su cui guardavano melanconici santi di legno colorato.

      Quando zio Isidoro finì di cantare non c'era più nessuno tranne il sacerdote e un ragazzo che finiva di smorzare i lumi, zia Bachisia e un vecchio cieco.

      Isidoro dovette ripetere da solo il ritornello delle laudi, poi si alzò, depose il campanello del quale si serviva per segnare le poste del rosario, e s'avviò. Zia Bachisia l'aspettava vicino alla porta; uscirono assieme ed ella gli diede i saluti di Costantino, poi gli chiese un favore; di pregare prete Elias perchè si degnasse d'andare a trovar Giovanna e farle una predica onde distoglierla dalla sua disperazione.

      Egli promise e zia Bachisia si allontanò; nello stradale fu raggiunta da Giacobbe Dejas che era rimasto sull'alta spianata della chiesa guardando il villaggio ed i campi gialli inondati di sole.

      – Come state? – chiese il servo a zia Bachisia.

      – Ah, Dio mio, stiamo male senza esser malate! E tu come ti trovi coi nuovi padroni?

      – Ah, ve l'ho già detto! Son caduto dalla padella nella brace. La vecchia è avara come il diavolo; vorrebbe che mi cascassero le viscere a furia di lavorare, e mi permette di tornare in paese, appena per ascoltar la Messa, ogni quindici giorni.

      – E il padrone?

      – Ah, il piccolo padrone? È un animale, ecco tutto!

      – Cosa dici tu, Giacobbe?

      – Ecco, dico la verità, uccellino di primavera. Egli si arrabbia come un cane per ogni piccola cosa, si ubriaca, ed è bugiardo come il tempo. Ecco, anzi Isidoro Pane vi avrà detto…

      Egli tacque, sospeso, e zia Bachisia lo fissò coi suoi occhietti verdi, pensando che se egli parlava tanto male del padrone aveva uno scopo.

      – Ecco, – egli riprese, – Isidoro Pane vi avrà detto… sì certo, ve lo avrà detto… che Brontu era ubriaco quella sera. Qui, ecco, proprio qui, egli s'è messo a gridare: «Dirai a Giovanna Era che se fa divorzio, io la sposo!» Una bestia! Proprio una bestia! Egli beve l'acquavite a barili.

      Di tutto questo zia Bachisia capì soltanto che Brontu aveva detto: «Se Giovanna Era fa divorzio la sposo». I suoi occhietti verdi scintillarono. E disse con fierezza:

      – E tu, Giacobbe, tu non vorresti?

      – Io? Che importa a me, uccellino di primavera? Ma voi dovreste vergognarvi di dire simili cose, zia nibbio, appena dopo due settimane…

      – Io non sono un nibbio… – strillò la vecchia, offesa.

      E l'altro rise, ma la donna capì che egli schiantava di rabbia.

      – Aspettate almeno che arrivi l'appello, – disse Giacobbe. – E poi divorate Costantino come si divora l'agnello immacolato; divoratelo pure, ma Giovanna sposerà una botte di acquavite e voi, finchè vivrà Martina Dejas, morrete di fame peggio di prima…

      – Ah, cocuzzolo spelato… – cominciò a gridare zia Bachisia; ma l'altro si allontanò rapidamente, ed ella dovette contentarsi di borbottargli dietro un mondo di vituperi.

      Nonchè essa pensasse già


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